Il made in Italy al centro della nostra politica industriale

L’Ira di Biden, i tentennamenti dell’Europa e la spinta delle imprese italiane verso la transizione green e digital. Dopo l’exploit del 2022, le prospettive del made in Italy devono fare i conti con un nuovo scenario dei mercati globali, dove alla crisi del quadro economico e geopolitico, dominato dal perdurare della guerra in Ucraina, si assommano le incertezze di un conflitto commerciale planetario in fieri tra le grandi potenze mondiali. L’asse tra Mosca e Pechino è l’ultima schermaglia nel nuovo risiko della globalizzazione che punta a rovesciare il “modello Occidentale”, ma è anche una secca risposta alla politica protezionistica dell’amministrazione Biden che prevede un budget federale di 2 trilioni di dollari nei prossimi dieci anni per migliorare la competitività economica, l’innovazione e la produttività industriale degli Stati Uniti. Dopo la legge sulle infrastrutture bipartisan e il Chips & Science Act, l’Inflation reduction Act (Ira), con i suoi 375 miliardi di dollari per catalizzare gli investimenti nella capacità produttiva nazionale, favorire l’approvvigionamento di materie critiche a livello nazionale e spingere lo sviluppo e la commercializzazione di tecnologie green, rappresenta una seria ipoteca sulle strategie di internazionalizzazione delle imprese europee e italiane in particolare.

(foto Biden)

«L’Inflation reduction Act ha impresso una accelerazione ulteriore alla competizione globale per la transizione e la creazione di nuove filiere green e digital, che si avverte soprattutto nel settore automotive, ma che ha un impatto generalizzato su tutte le catene del valore. A questo punto, produrre negli Stati Uniti significa avere vantaggi competitivi dal punto di vista di sussidi federali e statali, disporre di bassi costi energetici e di un vasto mercato domestico. Si rischia dunque la fuga dei nostri produttori in Usa, come la recente vicenda Volkswagen sembra indicare». Il viceministro al Ministero delle Imprese e del Made in Italy, Valentino Valentini, non nasconde i timori che agitano le imprese italiane e i professionisti più vocati all’internazionalizzazione e in questa intervista esclusiva a il Libero Professionista Reloaded analizza i punti di forza e di debolezza del made in Italy nel nuovo scenario della competizione globale.

L’Ira di Biden ha modificato profondamente le regole della competizione internazionale. Quali saranno le conseguenze sulla competitività del Made in Italy?

C’è il rischio che il ritardo accumulato in alcuni settori non possa più essere colmato.  Penso ai microprocessori presenti in ogni processo industriale, al settore batterie e delle sue componenti nel settore automotive e in quello più vasto dello stoccaggio delle rinnovabili, agli investimenti necessari per le filiere dell’idrogeno.

La risposta europea all’Ira di Biden punta a una revisione degli aiuti di Stato, ma molti Paesi non sono d’accordo. Qual è la posizione dell’Italia?

L’Italia ritiene che la flessibilità ottenuta nell’erogazione degli aiuti di Stato vada mantenuta, ma in maniera selettiva e mirata, per evitare di scatenare una competizione tra gli Stati dell’Unione europea, dalla quale non uscirebbero né vincitori né vinti, ma solo sconfitti, perché nessuno Stato membro può illudersi di poter disporre di una capacità fiscale tale da competere da solo con giganti come Usa e Cina. L’unico risultato sarebbe disgregare il nostro unico vantaggio competitivo che è il Mercato Unico.

Basterà allentare la disciplina degli aiuti di Stato per rilanciare la competitività delle imprese italiane, tenuto conto del debito dell’Italia?

Evidentemente non disponiamo dei margini fiscali dei nostri principali partners, per cui il nostro sforzo deve essere quello di riuscire ad impiegare tutte le risorse rese disponibili dal Pnrr, uno sforzo non di poco conto, e per questo il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, sta operando una revisione dello stesso sulla base di criteri pragmatici di utilità e di realizzabilità.

Allo stesso tempo, occorre utilizzare a pieno tute le altre risorse messe a disposizione dall’Unione, il Repower Eu cosi come i Fondi di Coesione.  Per quanto riguarda il recupero di competitività, in termini generali si tratta di un work in progress per ogni governo che passa attraverso le riforme, quella fiscale e quella della giustizia, la lotta alla burocrazia e l’ammodernamento della rete infrastrutturale, così come della pubblica amministrazione e della pubblica istruzione. Altrettanti cantieri aperti sui quali stiamo lavorando con un’ottica di legislatura.

(foto Von Der Leyen)

Per sostenere gli investimenti del green deal industrial plan, la commissione Von Der Leyen ha proposto la creazione di un fondo sovrano europeo. Ma anche qui molti Paesi – Germania in testa – non sono favorevoli. C’è il rischio che si alteri la concorrenza anche all’interno dell’Unione europea?

Dobbiamo mettere in campo tutte le risorse disponibili per consolidare la competitività europea e garantire il level playing field. La guerra in Ucraina, la crisi energetica, l’inflazione, l’Ira statunitense hanno messo a dura prova la resilienza del nostro sistema economico ed hanno reso necessaria una risposta tempestiva da parte della Commissione europea, come la riforma del Temporary Framework sugli aiuti di Stato. Un nuovo Fondo Sovrano Europeo per il finanziamento condiviso potrebbe essere un’utile misura di accompagnamento a tale riforma, ma richiede tempo per essere attuato. Nel breve termine è importante garantire una maggiore flessibilità nell’uso delle risorse esistenti, seguendo un approccio proporzionato, temporaneo e mirato, che eviti distorsioni all’interno del mercato unico.

In questa prospettiva, quali sono i settori del Made in Italy più a rischio?

Tutti i settori sono impattati dai grandi obiettivi della transizione verde e digitale. È necessario un ripensamento delle catene del valore tradizionali in chiave sostenibile per portare avanti attività di business virtuose e durature, cogliendo le opportunità che arrivano dalle nuove tecnologie, anche tramite l’assunzione di personale qualificato o investimenti nella formazione. I soggetti più a rischio sono quelli che avranno più difficoltà ad adattarsi a queste nuove dinamiche, incluse le Pmi. Per questo abbiamo messo in campo misure di diverso calibro che possano rispondere alle esigenze dei nostri diversi interlocutori.

Foto: consiglio competitività

Alla luce delle complesse convergenze politiche a livello europeo, quali misure il ministero delle Imprese sta mettendo in campo per promuovere e sostenere il Made in Italy sui mercati internazionali?

Col cambio di nome da MISE a MIMIT abbiamo voluto sottolineare la nostra intenzione di porre il Made in Italy al centro della nostra politica industriale. A tali fini, abbiamo istituto un Fondo da 100 milioni per il potenziamento delle politiche a sostegno delle filiere produttive del Made in Italy e stiamo attualmente lavorando alla sua attuazione. L’obiettivo è accrescere l’eccellenza qualitativa del nostro Made in Italy, favorendo una modernizzazione dei processi produttivi, sostenendo una formazione specifica, promuovendo l’export dei nostri prodotti e contrastando i fenomeni malevoli della contraffazione e dell’italian sounding, un vero stigma per il nostro brand.

Alla fine dello scorso anno è stato istituito il Comitato interministeriale per il made in Italy nel mondo (Cimim). Tra i suoi obiettivi c’è quello di tutelare e di incentivazione i settori produttivi nazionali più esposti alle turbolenze e alle rigidità normative dei mercati internazionali. Quali iniziative sono state prese in questa direzione?

Il CIMIM si è riunito per la prima volta nel mese di gennaio, con la partecipazione del Ministro Urso e dei Ministri di Affari Esteri, Economia e Finanze, Agricoltura e Turismo. Il comitato ha un duplice mandato. Oltre a promuovere le filiere italiane nel mondo, attraverso un’azione di valorizzazione del brand Made in Italy, il CIMIM si prefigge di rispondere a quei fenomeni esogeni che impattano negativamente sulle esportazioni, favorendo azioni compensative che ripristino il regolare livello di concorrenza. Per raggiungere questo obiettivo, è essenziale partire da una mappatura degli incentivi all’internazionalizzazione attualmente disponibili per formulare un’offerta organica di strumenti in grado di soddisfare le necessità delle nostre imprese, tenendo conto degli input arrivati dalle associazioni di categoria.

(foto cimim)

Sull’altro piatto della bilancia c’è la necessità di restituire appeal al nostro Paese e creare un ambiente, anche normativo e fiscale, più favorevole per attrarre investimenti esteri. Da dove si comincia?

Sburocratizzazione, approccio su misura e rapidità. Sono queste le tre linee d’azione del CAIE, il Comitato Interministeriale per l’Attrazione degli Investimenti Esteri, che col nuovo Governo abbiamo voluto rilanciare, tramite il rinnovo della Segreteria Tecnica. Gli investimenti esteri possono rappresentare un grande bacino di opportunità per la nostra economia. Secondo i dati di Bankitalia, solo nel 2021 sono stati oltre 393 miliardi di euro[1]. Per agevolare questo flusso di risorse intendiamo semplificare l’iter amministrativo necessario per investire nel mercato italiano, prevedendo un’unica interfaccia pubblica che assista l’investitore straniero in tutte le fasi. In questo contesto un contributo sostanziale arriva anche dalle riforme connesse al Pnrr, inclusa la semplificazione fiscale.

E quale può essere il ruolo dei liberi professionisti in questa direzione?

I liberi professionisti sono una grande risorsa per questo Paese. Mettendo a disposizione della collettività conoscenze e competenze specialistiche d’alto livello, garantiscono lo svolgimento di attività che sono essenziali per il buon andamento dei nostri affari. Grazie alla dinamicità del loro lavoro e all’assenza di sovrastrutture complesse, i liberi professionisti hanno una maggiore capacità di adattarsi ai cambiamenti del nostro sistema economico. Penso all’internazionalizzazione, ma anche alle scelte che ci vengono imposte dalla twin transition.. In questa direzione, i liberi professionisti hanno il ruolo di “traghettarori”, trovandosi ad accompagnare gli imprenditori in questo processo di costante rinnovo.

Uno dei driver della crescita del settore professionale punta verso l’internazionalizzazione, ma sconta ancora gravi ritardi rispetto al mondo delle imprese. Pensiamo, ad esempio, all’iniziativa Industria 4.0. Come e in che misura il Ministero delle Imprese e del Made in Italy può colmare questo gap normativo?

L’internazionalizzazione rappresenta senz’altro un valore aggiunto, non solo per le imprese ma anche per le realtà professionali. In un mercato globale è importante sapersi muovere ed orientare anche oltre i propri confini nazionali per accrescere la propria competitività. Questo è chiaro agli stakeholder italiani, nel nostro Paese infatti l’export rappresenta il 32% del Pil nazionale (nel 2021)[2], una porzione che si riferisce sia ai beni che ai servizi. A sostegno dell’internazionalizzazione lo Stato ha previsto un ampio ventaglio di misure, come il Voucher Internazionalizzazione del MAECI[3] e l’attività di Export Training[4] svolta da ICE Agenzia. Per evitare che tali iniziative restino isolate rispetto agli indirizzi generali di politica industriale, seguiti dal MIMIT, assume un ruolo chiave la Cabina di Regia per l’Internazionalizzazione, attraverso la quale coordinare gli sforzi delle singole amministrazioni e offrire una risposta organica alla questione dell’internazionalizzazione.

[1] https://www.bancaditalia.it/statistiche/tematiche/rapporti-estero/investimenti-diretti/index.html

[2] XXXVI Edizione del Rapporto sul Commercio Estero “L’Italia nell’economia internazionale” di ICE Agenzia: https://www.ice.it/it/node/8212#:~:text=Il%20valore%20doganale%20delle%20esportazioni,era%20il%2030%2C2%25

[3] https://www.invitalia.it/cosa-facciamo/rafforziamo-le-imprese/voucher-internazionalizzazione

[4] https://exportraining.ice.it/offerta-formativa/formazione-imprese/africa-business-lab-edizione-2023/

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