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L’ago della bilancia tra Usa e Ue

Da quando Donald Trump è stato eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti d’America e ha fatto del protezionismo economico uno dei pilastri della sua amministrazione, in Europa è scattata la fobia dei dazi doganali. E l’Italia non ha fatto certo eccezione. Sulle prime pagine dei principali mezzi di informazione nazionale, infatti, gli articoli su quanto peserebbero i dazi americani sulle nostre esportazioni Oltreoceano e su quelle di altri Paesi europei si sprecano. Ma al di là delle proiezioni, siamo proprio sicuri che il provvedimento a cui sta pensando l’amministrazione Trump impatterebbe in modo così determinante sul business delle nostre aziende e di quelle di altri Paesi Ue?

Per tentare di dare una risposta obiettiva bisognerebbe evitare di considerare l’applicazione dei dazi come un provvedimento isolato inserendola, come è giusto che sia, in un programma più ampio di politica industriale e commerciale di un Paese. Se per esempio l’andamento monetario del dollaro continuasse a rafforzarsi sull’euro, come sta accadendo da alcuni mesi a questa parte, anche se dal governo Trump venisse confermato un dazio doganale del 10% sui prodotti italiani, i nostri imprenditori risulterebbero meno penalizzati rispetto a quanto verificatosi negli ultimi 20 anni, periodo in cui hanno dovuto operare in un regime di cambio mediamente sfavorevole del 20-25%. Consideriamo inoltre che il valore di cambio di una moneta è legato allo stato di salute di una economia e che un mercato a stelle e strisce sano e un dollaro forte spingerebbero ulteriormente la domanda di prodotti made in Italy.

Meno rischi per l’Italia

Non va poi dimenticato che i dazi operano su codici doganali focalizzati su specifiche gamme di prodotto e anche da questo punto di vista l’Italia, rispetto ad altre nazioni europee, è messa meglio visto che il nostro tessuto industriale è fatto prevalentemente da Pmi specializzate nella produzione di eccellenze in tutti i settori merceologici. Eccellenze che negli Usa non si trovano e che il mercato continuerà a richiedere anche in presenza di una politica economica protezionistica. Al contrario un paese come la Germania, che ha un’economia basata prevalentemente sull’industria automobilistica e meccanica è molto più a rischio visto che uno dei comparti più importanti degli Usa è proprio quello delle quattro ruote. Basti dire che nel 2024 è arrivato a valere qualcosa come 0,98 trilioni di dollari e che le previsioni per l’anno in corso si aggirano sui 1,04 trilioni di dollari (fonte mordorintelligence.it).

La fine della globalizzazione

Al di là dei dazi e delle eventuali conseguenze sulle esportazioni europee una cosa è certa: l’elezione di Trump ha sancito definitivamente la fine della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta negli ultimi anni. Il problema degli Usa oggi sono i 500 miliardi di deficit commerciale verso l’Europa. Una cifra importante che in qualche modo va ridotta e la regionalizzazione dell’economia aiuterà a raggiungere l’obiettivo facendo rimanere la ricchezza all’interno del Paese. Trend che contagerà anche altre nazioni mettendo in difficoltà soprattutto le grandi industrie ma non le medio piccole realtà imprenditoriali e i liberi professionisti in grado di aggiornare le loro competenze per offrire consulenze in linea con le nuove esigenze delle aziende.  

Relazioni internazionali

Uno scenario internazionale decisamente in evoluzione che vede il governo italiano impegnato a preparare il terreno per sostenere la crescita e la competitività delle imprese nazionali. Diverse sono le azioni messe in campo a cominciare dall’intensificazione delle relazioni diplomatiche ed economiche con Paesi strategici per la nostra economia che vanno ben oltre gli Usa. Basti pensare al viaggio di Stato negli Emirati Arabi fatto da Giorgia Meloni subito dopo la sua nomina a primo ministro e destinato a sbloccare affari con l’Italia per oltre 4 miliardi di euro. Le buone doti diplomatiche della premier sono destinate a migliorare la credibilità dell’Italia a livello internazionale, ad aprire nuove strade commerciali alle nostre imprese e a intensificare quelle già in essere. Non è un caso che Trump abbia scelto Meloni come suo punto di riferimento in Europa. E Bruxelles ne deve prendere atto anche perché oggi l’Europa si trova davanti a un bivio: continuare ad evolvere o implodere su sé stessa correndo il rischio di essere presa d’assalto da Ovest, da Est e da Sud. Evolvere significa per forza di cose cambiare quelle regole che oggi impediscono al suo popolo e alle sue imprese di prosperare, a cominciare dal Green Deal, che così come è stato concepito mette a rischio la competitività delle imprese del vecchio continente rispetto a quelle asiatiche e non solo. La decarbonizzazione non può e non deve essere inseguita a prezzo della deindustrializzazione, deve essere un processo graduale da effettuarsi nel lungo periodo.  

Il ruolo delle Banche centrali

Ma va rivisto anche il rapporto debito pubblico/Pil, che dovrebbe attestarsi attorno al 6 -7%, altrimenti non ci potrà esserci alcuna crescita economica.  La Banca centrale europea deve essere al servizio della politica e non agire in modo indipendente da questa. Lo deve essere nella sua funzione di controllo e operativa, ma non assolutamente strategica. Altrimenti è come se un’azienda dicesse al suo CEO che il CFO non dipende da lui e dal board ma da sé stesso e quindi può avere un’agenda divergente. Inutile precisare che una struttura simile non può più sostenersi di fronte a banche centrali come l’americana Fed e la Banca Popolare Cinese, entrambe dirette dai rispettivi governi centrali.
Questo è un aspetto molto importante sia per sostenere lo sviluppo europeo e italiano, sia per evitare che le iniziative politiche di un paese europeo corrano il rischio di essere annullate da una politica monetaria che invece di essere al servizio dei cittadini e delle imprese gioca contro di loro. Un principio che in scala differente vale anche per la Banca d’Italia, che non può avere partecipazioni private ma deve esser libera da conflitti di interesse ed essere al servizio del governo. In altro modo sarebbe utopistico continuare a crescere perché verremo schiacciati da politiche monetarie a supporto di quelle strategiche dei governi USA e dei Paesi Brics in primis.

 

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