Reazione nucleare

Nel 2022 il fabbisogno di energia elettrica in Italia è stato pari a 315 TWh (Terawattora) in lieve diminuzione rispetto all’anno precedente (-1,5%) ed è stato soddisfatto per l’86,4% da produzione nazionale e dalle importazioni di energia elettrica nette dall’estero per la quota restante: questo dato non deve trarre in inganno riguardo alla nostra indipendenza energetica perché quasi il 70% della produzione nazionale è basato sul termoelettrico, le cui materie prime sono in massima parte importate. Ciò significa che solo poco più di un quarto del fabbisogno nazionale è assicurato effettivamente da fonti interne (cioè da fonti rinnovabili: idroelettrico, fotovoltaico, eolico e geotermico, in ordine decrescente di contributo).

È facile intuire come una tale dipendenza dall’estero mette il Paese alla mercè di chi possiede le materie prime che dobbiamo bruciare o di chi produce l’energia elettrica in eccesso che noi dobbiamo importare, con tutto ciò che ne consegue in termini di costi eccessivi dell’energia in periodi caratterizzati da tensioni politiche internazionali che diventano critiche con sempre maggiore frequenza.

L’orizzonte 2050

Ad aggravare il panorama nazionale si registra un notevole calo della produzione di energia da fonte idrica: nell’ultimo triennio si è passati da quasi 50 TWh ai circa 30 attuali, mentre l’incremento delle altre fonti rinnovabili ha superato di poco i 5 TWh: invece dell’aumento esponenziale annunciato da chi ritiene praticabile l’opzione “100% rinnovabili”, il Paese è stato costretto a ricorrere ai combustibili fossili in maniera ancora più ingente che in passato.

Se al quadro attuale si aggiunge l’intenzione di minimizzare il ricorso al gas naturale per uso domestico e la necessità di elettrificare il parco auto entro qualche decennio, è evidente che la domanda di energia elettrica è destinata ad aumentare in modo tutt’altro che trascurabile.

Se le stime più accreditate portano a circa 470 TWh il fabbisogno nazionale al 2050 (aumento del 50% rispetto al 2022), appare chiaro che il percorso verso la decarbonizzazione in Italia sembra un’impresa assai ardua e non potremo raggiungere gli obiettivi posti a meno di portare a livelli altissimi (ma quanto economicamente sostenibili?) l’importazione diretta di energia elettrica (nella speranza che chi ce la vende non la produca ricorrendo a fonti fossili).

Il nucleare in Europa

In un contesto come questo si inserisce il rinnovato interesse per l’energia da fonte nucleare: la recente inclusione del nucleare da fissione nella Tassonomia europea sancita dalla Commissione europea, e motivata dalle conclusioni del relativo High Level Technical Group secondo cui «c’è chiara evidenza che la sostenibilità nucleare contribuisce alla mitigazione dei cambiamenti climatici», ha riaperto il dibattito anche in paesi dove l’energia nucleare era una tecnologia “in declino”, oppure assente o, come in Italia, in cui l’opinione pubblica, in merito, è ancora confusa.

In ambito internazionale sono sempre più numerose le iniziative per rendere maggiormente fruibile questa tecnologia, ad esempio ricorrendo alla progettazione di reattori di piccola taglia (Small Modular Reactors, SMR) per i quali, entro il 2035, si stima l’installazione di oltre 20 GWe (Gigawatt elettrico) a livello globale, ovvero circa il 3% della capacità nucleare totale oggi installata. Parallelamente continua la realizzazione e connessione alla rete elettrica di reattori nucleari di taglia media (Mochovce-3, in Slovacchia) o grande (Olkiluoto, in Finlandia) e la ricerca e sviluppo dei reattori di IV generazione sia di grande che di piccola taglia.

Occorre continuare ad investire per massimizzare il contributo che le fonti rinnovabili possono e devono dare a un mix energetico equilibrato, che punti sia alla decarbonizzazione che a una maggiore indipendenza dalle importazioni di energia e/o di materie prime, ma non includere l’energia da fonte nucleare senza motivazioni tecniche o economiche a supporto è in netta controtendenza rispetto al resto del mondo industrializzato, con l’unica eccezione della Germania che, d’altra parte, sta pagando a carissimo prezzo (sia ambientale che economico) la scelta di chiudere le centrali nucleari in un momento di forte insicurezza energetica, causata dall’instabilità geopolitica.

Pregiudizi ideologici

La scarsa accettabilità sociale della tecnologia nucleare è basata essenzialmente sulla paura legata alla limitata conoscenza tecnica: l’energia da fonte nucleare non è mai stata illustrata alla popolazione in modo scientificamente neutro e comprensibile ai non addetti ai lavori.

Il timore che siano estremamente probabili in qualsiasi centrale nucleare incidenti tipo Chernobyl (unico evento della storia dell’energia nucleare ad aver provocato, purtroppo, vittime) o Fukushima (che, a parere dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, non ha provocato e non provocherà alcun decesso riconducibile alle radiazioni dovute all’incidente nucleare) può essere fugato solo con una campagna di informazione su larga scala che affronti la tematica senza pregiudizi ideologici e permetta al cittadino di comprendere vantaggi e svantaggi di una tecnologia estremamente diffusa e in continuo miglioramento per quanto riguarda la sicurezza delle centrali e la salvaguardia dell’ambiente.

I reattori in corso di realizzazione e di sviluppo, infatti, sono caratterizzati dall’introduzione di sistemi di sicurezza passivi: in caso di malfunzionamento non è più necessaria la disponibilità di energia elettrica per attuare i sistemi che consentono di spegnere e mettere in scurezza il reattore, ma si sfruttano fenomeni fisici che non necessitano di intervento umano o elettrico per essere attuati (Newton ci ha insegnato che una mela lasciata a se stessa in aria cade indipendentemente dalla presenza di un osservatore umano o della disponibilità di elettricità).

Il nodo dei rifiuti radioattivi

L’importanza di una comunicazione scientificamente corretta e priva di pregiudizi è dimostrata anche dagli scarsi risultati della fase di consultazione pubblica seguita alla pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) ad ospitare il Parco tecnologico e il Deposito nazionale per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi: nessuna autorità locale presente nella Cnapi ha proposto una sua candidatura e molti comuni hanno protestato per il solo fatto di esservi stati inseriti. Eppure il Deposito nazionale, necessario per smaltire i rifiuti radioattivi a molto bassa e bassa attività, attualmente stoccati in tanti depositi temporanei posti sul territorio italiano, è un edificio che dovrà essere progettato con criteri di sicurezza talmente stringenti che il potenziale danno all’ambiente provocato durante il suo esercizio dovrà essere inferiore al livello di rilevanza radiologica, cioè meno di quanto è consentito a qualsiasi installazione che preveda l’uso di sorgenti radioattive nel nostro paese.

L’impatto economico

Occorre anche considerare che l’eventuale ritorno alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare avrebbe un notevole impatto economico per il Paese, non solo per il costo ridotto dell’energia, ma anche in termini di economia ed occupazione. Il piano illustrato da uno dei maggiori player energetici nazionali prevede la costruzione di 15 impianti di piccola taglia a partire dai primi anni del prossimo decennio per arrivare al 10% del mix energetico nazionale nel 2050. Si ipotizzano investimenti complessivi (privati) pari a circa 30 miliardi di euro che si tradurrebbero in quasi 100 miliardi di euro in termini di incremento della produzione e in più di mezzo milione di nuovi posti di lavoro nel periodo di realizzazione degli impianti. Una centrale nucleare di medie dimensioni necessita di circa 500 nuovi posti di lavoro: un numero decisamente superiore rispetto ai 50 circa di una centrale a gas ed i 100 di una a carbone.

Per fornire una idea di massima dell’impatto dell’energia nucleare sull’economia di una regione sviluppata come l’Unione europea, che ha un parco centrali nucleari di circa 120 GWe, si consideri che nella sola Ue il settore nucleare impiega 1,1 milioni di lavoratori di cui il 47% sono di elevata formazione e professionalità e che ogni GWe installato genera 4,3 miliardi di euro di Pil, circa 10 mila posti di lavoro e 1 miliardo all’anno di entrate nel settore pubblico. Nel solo 2019 il settore nucleare europeo ha generato 124 miliardi di euro di entrate.

Avanti con la ricerca

In conclusione è utile citare l’impegno che la comunità internazionale sta mettendo in atto nello sviluppo della fusione nucleare, sul quale anche l’Italia è fortemente impegnata: quando questa tecnologia sarà disponibile a livello industriale potrà senz’altro svolgere un ruolo fondamentale nella produzione di energia elettrica senza produzione di gas serra, ma oggi sono ancora richiesti notevoli sforzi di ricerca e sviluppo, conferme sperimentali sulla fattibilità tecnica delle varie soluzioni proposte e dei processi allo studio. Tale fase dovrà poi essere seguita da una fase di industrializzazione per consentire a questa tecnologia altamente innovativa di poter competere nei futuri mercati energetici. L’orizzonte temporale, a detta degli esperti più accreditati, è la fine del secolo corrente; quindi, non può essere uno strumento per favorire l’attuale processo di decarbonizzazione, ma sarà utile per adeguare il sistema produttivo ai crescenti aumenti della domanda di energia del futuro.

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