Nonostante una campagna elettorale concentrata su altre priorità, quale spazio rivestiranno, nella prossima legislatura del Parlamento europeo, i temi del lavoro, e in particolare del lavoro libero professionale? La risposta non è del tutto insoddisfacente
di Andrea Buratti
Le istituzioni europee hanno finalmente abbandonato la loro tradizionale ritrosia ad intervenire sulla regolazione del lavoro – una ritrosia determinata dalle resistenze degli stati membri e da una base giuridica nei Trattati che limitava gli interventi dell’Unione al mero coordinamento delle politiche nazionali. Già prima della pandemia, ma con un’evidente accelerazione a partire dal 2019, l’Unione ha preso coscienza delle transizioni in atto nel mondo del lavoro in Europa: una nuova grande trasformazione al cui centro si colloca la realtà del lavoro autonomo professionale – unico comparto, nell’ambito del variegato universo del lavoro autonomo, in costante crescita negli ultimi decenni. Questa transizione è il frutto della progressiva terziarizzazione delle nostre economie, delle politiche industriali di esternalizzazione, della nascita di un mercato intermediato dalle piattaforme, di nuove domande di servizi. Tendenze che intercettano la maggiore attrattività, per i giovani, di realtà lavorative connotate da maggiore creatività, indipendenza e flessibilità nella conciliazione con la vita privata.
La direttiva sul salario minimo, prima, e quella sul lavoro intermediato dalle piattaforme, poi, rappresentano i più significativi risultati di questa nuova fase delle politiche del lavoro dell’Unione, con l’obiettivo di una regolazione più incisiva del mercato del lavoro, a tutela, in particolare, dei soggetti deboli del rapporto. La Corte di Giustizia, adita da Danimarca e Svezia, ci dirà se la direttiva sul salario minimo è andata oltre il perimetro delle competenze disegnato dai Trattati; ma l’evoluzione delle competenze dell’Unione sulla base delle trasformazioni della società è una costante nel processo di integrazione.
Dai proclami agli atti concreti
Tutto lascia intendere, pertanto, che la prossima Commissione e il prossimo Parlamento proseguiranno nello sforzo della regolazione di un mercato del lavoro più omogeneo, e improntato a criteri di equità.
All’interno di questa nuova fase delle politiche europee, dovrà trovare posto anche il tema del lavoro autonomo. Le istituzioni europee sembrano ora pienamente consapevoli del valore e delle esigenze di questo comparto, che caratterizza, per dimensioni e qualità, lo spazio europeo. Si tratta ora di trasformare le proclamazioni di principio in atti concreti.
Anzitutto sul terreno del sostegno allo sviluppo del settore. Diversamente da molti altri settori dell’economia europea, che nei decenni del processo di integrazione hanno ampiamente attinto alle risorse del bilancio comune, le libere professioni non beneficiano di incentivi economici. E non ne chiedono. Il supporto allo sviluppo dovrà venire, piuttosto, dall’apertura di spazi di mercato e dalla protezione dalla penetrazione di soggetti economici non professionali in mercati tradizionalmente caratterizzati dalla personalità del lavoro. Alcuni settori sono già oggi particolarmente esposti, e una regolazione sull’effettiva indipendenza del professionista da un’impresa di riferimento potrebbe essere prefigurata – con risultati nel lungo periodo più incisivi rispetto a misure di mera resistenza, come quelle sull’equo compenso.
Occorrerà anche dare nuovo slancio alla mobilità dei professionisti, riprendendo il processo di mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali e, soprattutto, l’armonizzazione dei percorsi formativi universitari – obiettivi che negli ultimi anni sono stati marginalizzati, interrompendo un processo virtuoso.
Il nodo delle piattaforme
Un punto di particolare rilievo è quello del lavoro professionale intermediato da piattaforme. È una realtà destinata a crescere esponenzialmente nei prossimi anni. E non si tratta solo di riders e servizi di consegna. Molte professioni si sposteranno sulle piattaforme telematiche: talora solo per determinare l’incontro tra domanda e offerta; in altri casi il servizio potrà essere organizzato e reso in piattaforma; e non mancheranno le piattaforme che offriranno una vera e propria intermediazione del servizio, stabilendo rapporti contrattuali con il cliente, da un lato, e il professionista, dall’altro. Sono tendenze che richiedono presidi normativi urgenti, perché l’intermediazione delle piattaforme espone tutti i soggetti del rapporto professionale a seri rischi. Il cliente, anzitutto, che non sempre avrà la garanzia della personalità della prestazione, e rimetterà alla piattaforma la verifica del possesso delle qualifiche idonee all’esercizio della professione; il professionista, subito dopo, che sarà in balìa delle opache logiche dell’intelligenza artificiale in uso nelle piattaforme tanto per l’incontro del cliente quanto per la determinazione del corrispettivo della prestazione. La recente direttiva sul lavoro intermediato dalle piattaforme ha iniziato a dare risposte, soprattutto su quest’ultimo profilo. Ma manca una presa di coscienza delle peculiarità dell’economia delle piattaforme per i servizi professionali: un tema su cui andrebbe, invece, alzato il livello di guardia.
Quale welfare per gli autonomi?
Emerge poi la priorità della protezione sociale di un universo di lavoratori al cui interno esistono situazioni molto differenziate in termini reddituali e di stabilità economica. La raccomandazione sulla protezione sociale, del 2019, che ha espressamente equiparato lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti sul piano delle domande di protezione sociale, ha puntato il dito contro i numerosi squilibri che caratterizzano i sistemi di welfare degli stati membri, imponendo una progressiva convergenza. Ma, ad oggi, il processo di adeguamento spontaneo è carente, come la stessa Commissione ha denunciato di recente. Il nuovo Parlamento sarà con ogni probabilità chiamato a discutere della possibilità di trasformare gli obiettivi di quella raccomandazione in principi di una nuova direttiva, così trasformando la norma europea in un atto vincolante. Considerate le tradizionali e radicate resistenze delle legislazioni nazionali a rivedere i propri sistemi di welfare, un’azione incisiva dell’Unione sul punto sembra auspicabile: sono davvero troppe le coperture di welfare di cui i lavoratori autonomi non dispongono, o che sono previste a livello meramente formale.
Non è detto, peraltro, che un nuovo ambito di welfare per il lavoro autonomo debba necessariamente sfociare nella costruzione di un nuovo apparato pubblico, finanziato da contributi dei lavoratori. Siamo ormai consapevoli delle straordinarie opportunità provenienti dalle reti associative, che possono diventare i protagonisti di un welfare di categoria coordinato e sostenuto dal centro, ma articolato a livello “micro”, in base alla libera elezione del lavoratore e alle specifiche esigenze del settore.
Dialogo sociale, avanti tutta
Infine, la fotografia aggiornata del lavoro in Europa non sembra ammettere ulteriori ritardi sull’allargamento del dialogo sociale alle parti sociali rappresentative del lavoro autonomo. Tanto più che la stessa Commissione, con delle recenti Linee guida, ha ammesso, seppure in casi particolari, il ricorso ad una contrattazione di settore nell’ambito del lavoro autonomo – in deroga, dunque, ai severi criteri della Corte di Giustizia che ha sempre considerato pattuizioni sul lavoro autonomo come cartelli tra imprese, contrari alla concorrenza.
Le professioni sono destinate a svolgere un ruolo sempre più rilevante nell’economia europea dei prossimi anni. E i mercati delle professioni, specie quando si spostano sul web, diventano sempre più transnazionali. Ci sono, insomma, tutte le premesse per una vera strategia europea per le professioni, che a livello degli stati manca da molti anni, e che forse a Bruxelles potrà trovare risposte più libere da interessi particolari e pregiudizi culturali obsoleti.