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La competitività tra due fuochi

di Valentina Meliciani

Director Luiss Institute for European Analysis and Policy, Università Luiss Guido Carli

 

«Per molto tempo la competitività è stato un tema controverso in Europa, ma la questione chiave è che abbiamo sbagliato focus, vedendo noi stessi come concorrenti e allo stesso tempo non guardando abbastanza all’esterno», ha detto l’ex-premier italiano Mario Draghi nel suo intervento del 16 aprile scorso alla Conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali. In questo modo abbiamo lasciato campo libero ad attori di primo piano come Stati Uniti e Cina, da tempo impegnate a elaborare politiche per rafforzare la loro posizione di competitività a livello mondiale, indirizzando gli investimenti a loro vantaggio e a spese nostre.

È vero, l’Unione europea, come ha sottolineato Draghi non ha mai avuto un piano industriale equivalente a quello delle due superpotenze  e soprattutto non ha mai messo a fuoco una strategia complessiva per dare risposte concrete su fronti strategici dalla rincorsa ai ritardi tecnologici alla protezione dell’industria tradizionale causata da asimmetrie sul piano regolatorio, commerciale e di sussidi, fino alle ambizioni di ridurre le dipendenze strategiche (come materie prime critiche e batterie). In questo scenario agire come Unione europea in modo unito e coeso sembra essere la scelta migliore per guadagnare terreno sul fronte della competitività per la quale, in base ad alcune stime, servono 600 miliardi di euro l’anno, solo per fronteggiare transizione verde e digitale.

Federalismo vs nazionalismo

Due le leve finanziarie individuate da Draghi per oliare il rilancio dell’economia dell’Unione: da un lato il rafforzamento del bilancio centralizzato europeo per finanziare programmi simili a Next Generation EU e programmi di politica industriale; dall’altro il potenziamento del mercato unico, completando sia l’unione bancaria, sia l’integrazione del mercato dei capitali in maniera tale da far convogliare il copioso risparmio privato europeo verso gli investimenti. Quindi un mix di risorse pubbliche e private complementari tra di loro con l’obiettivo di tornare a essere competitivi sui mercati internazionali.
Un programma che, però, potrebbe essere ostacolato dall’esito delle ultime elezioni. Perché se è vero che sulla carta nel Parlamento europeo esiste ancora la maggioranza che ha sostenuto Ursula von der Leyen, è innegabile che ci sia stato un deciso incremento delle forze di destra e di estrema destra, anche se disomogenee tra di loro. Movimenti sovranisti che, come molti di loro hanno dichiarato durante l’ultima campagna elettorale, intendono “cambiare l’Europa dall’interno”. Cosa questo voglia dire esattamente non è chiarissimo, ma il sospetto è che il Parlamento Ue uscito da queste ultime elezioni renda un pochino più difficile muoversi verso quell’ Europa più federale tanto auspicata da Draghi. Anzi la sensazione è che si vada verso un’Unione delle nazioni dove la componente federale sarà sempre più assente, così come sarà assente la possibilità di emettere un debito comune.

I nodi da sciogliere

E allora, come sarà possibile rilanciare la competitività? La devono rilanciare i singoli stati? E se sì, con quali risorse e con quali conseguenze per il mercato unico nel momento in cui lo strumento della crescita diventano i sussidi di Stato? In che modo tutto questo sarà compatibile con un mercato unico e con una convergenza tra Paesi che hanno imprese di dimensioni diverse e capacità fiscali differenti? Tutti nodi che andranno sciolti nel prossimo futuro. E non sarà certo un esercizio facile. Anche perché usciamo dalla fase della globalizzazione e del multilateralismo, dove l’approccio europeo era più sostenibile di quanto non lo sia ora. L’idea di una economia trainata dalle esportazioni con un ruolo marginale della politica industriale, infatti, era un modello che poteva funzionare finché c’erano mercati aperti e organizzazioni internazionali con un peso forte. Ora, invece, le considerazioni di sicurezza nazionale diventano sempre più importanti e le politiche industriali diventano sempre più aggressive e a volte si confondono con politiche protezionistiche. Basti pensare per esempio all’ Inflation Reduction Act americano per rendersene conto.

Una situazione complessa all’interno della quale l’Europa continua ad avere un approccio disordinato, dove ogni nazione tende a portare avanti una sua politica industriale. Peccato che la competitività si giochi su scala internazionale non certo nazionale. Quando si parla di temi strategici come l’Intelligenza artificiale o la transizione verde che implicano una ristrutturazione completa dei modelli produttivi, ragionare su scala nazionale significa trovarsi a gestire un problema di inefficienza, di coordinamento, di duplicazione degli sforzi e di sprechi di risorse. E non è cosa da poco. L’Europa, insomma, sembra aver chiaro gli obiettivi da raggiungere ma non gli strumenti da utilizzare per poterlo fare in modo efficiente.  Strumenti che non possono essere nazionali, ma devono essere comuni. La stessa pratica di porre obiettivi comunitari e lasciare ai singoli paesi gli strumenti per raggiungerli rispetto alla capacità di intervento cinese e americana è del tutto insufficiente. Così il rischio di restare schiacciati tra le due forze diventa sempre più alto.   

Recuperare è possibile

Eppure evitare di restare soffocati è possibile. Iniziamo con il dire che il debito pubblico negli Usa è molto più alto di quello della media Ue e che il risparmio privato è più alto in Ue che non negli States. La grande differenza è che nel Vecchio continente il risparmio privato è depositato presso le banche, quindi inutilizzato, negli Usa invece viene impiegato per finanziare gli investimenti. Questo per dire che le risorse economiche esistono, quello che manca sono i meccanismi che permettono di utilizzarle in modo produttivo. Così gli investimenti arriverebbero non solo dal credito bancario, ma anche da un mercato azionario e dei capitali che funzioni, accompagnato da investimenti pubblici e da un serio programma economico/industriale capace di dare la direzione su quali siano i settori trainanti e strategici su cui vale la pena di investire. Si dovrebbe tornare a una seria visione della politica industriale, il che significa scelta e, dunque, responsabilità.

 

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