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Il mondo è là fuori

Tante le sfide che l’Europa post elezioni si troverà ad affrontare, in un clima di instabilità politica che potrebbe rallentare ulteriormente i processi decisionali. Dalla transizione verde alla politica estera fino al rilancio dell’economia. Tutte raggruppabili sotto l’etichetta della sicurezza: geopolitica, economica, climatica. Ma il rischio di una deriva protezionistica è alto. E poco sicuro

di Paolo Magri

 

Molte conferme, alcune sorprese, di sicuro un’Europa diversa – anche se non diversissima – da quella che abbiamo visto nel corso del primo mandato di Ursula von der Leyen. Questo è un primo bilancio, che andrà certamente aggiornato nei prossimi mesi, con molti riassestamenti inevitabili dopo che questa tornata elettorale ha portato sconvolgimenti in diversi paesi cruciali per l’Europa.

A livello europeo sembra reggere, pur tra molti tentennamenti, la “grande coalizione” di centro tra popolari, liberali e socialisti, che con 403 seggi su 720 avrebbe al momento una maggioranza del 56%. È una maggioranza traballante, però, come vedremo a breve, e dunque non è detto che “regga” la riconferma di von der Leyen. Così come non è detto che reggano i leader nazionali: da Emmanuel  Macron che, pesantemente sconfitto dalla destra del Rassemblement National, ha deciso di indire elezioni parlamentari per fine giugno; a Olaf Scholz, la cui “coalizione semaforo” ha subìto un colpo di dimensioni storiche (dal 52% del 2019 al 31% odierno, con nessuno dei tre partiti a far registrare il segno “più”, e con il suo partito, la SPD, ai minimi storici) e che a settembre dovrà affrontare elezioni in tre Lander dell’ex Germania orientale, in cui la destra radicale dell’AfD domina.

 

Destre in crescita

Come si può intuire dalle vicende elettorali nel “motore” franco-tedesco, in Europa crescono le destre. La percezione che i gruppi euroscettici (ECR) e di destra radicale (ID) non si siano molto rafforzati arriva solo perché qualche settimana prima del voto da ID era stata espulsa proprio AfD, mentre nel 2021 il PPE aveva espulso Fidesz di Viktor Orban, che è rimasto anche lui tra i “non iscritti”. Questi ultimi, parlamentari ancora alla ricerca di un’affiliazione politica o che resteranno volontariamente ai margini perché troppo radicali, compongono a oggi ben l’11% dei seggi e discendono in stragrande maggioranza da partiti nazionali di destra.

 

Occhi puntati sul partito dei Verdi

Sul piano formale, resta ancora più probabile che chiunque guiderà la prossima Commissione europea guarderà più ai verdi, i grandi sconfitti di queste elezioni, piuttosto che verso destra. Il motivo principale è che i verdi sono composti da partiti strutturati e tendenzialmente collaborativi; i gruppi di destra sono invece molto eterogenei e tendono a “tradire” più facilmente. E sì, comunque la maggioranza andrà allargata, perché al Parlamento europeo il tasso di “ribellione” degli europarlamentari della grande coalizione è molto alto: negli ultimi cinque anni si è aggirato intorno al 20%. La ragione è semplice: in molti casi questi partiti sono acerrimi rivali a livello nazionale (si pensi a dove si collocano Forza Italia e Partito Democratico in Italia, alla CDU e alla SPD tedesche, o al PSOE e al PP in Spagna).

Più che grande coalizione, la maggioranza sembra trasformarsi così in un “fronte repubblicano” che perpetua la conventio ad excludendum delle destre radicali (ID), e disponibile al confronto ma non alla collaborazione con quelle euroscettiche (ECR, il gruppo di Fratelli d’Italia). Quello che ne esce, in definitiva, è un Parlamento europeo ancora più frammentato, che renderà più complicato (e più lento) trovare punti di convergenza per arrivare a risposte comuni sui dossier più controversi. Il fatto che Francia e Germania traballino – con Macron che sarebbe in teoria stato destinato a restare presidente fino al 2027, e Scholz che non sembra per il momento avere intenzione di indire elezioni anticipate – ci dice che questa situazione di stallo potrebbe durare a lungo, con evidenti riflessi sull’efficacia del processo decisionale europeo.

 

Le sfida della transizione ecologica

Ciò, tuttavia, non significa che dovremo aspettarci un Parlamento europeo sempre paralizzato, o che gli orientamenti di destra saranno messi in minoranza. Lo vediamo su tre fronti principali, che sono poi in fondo le tre grandi sfide cui deve far fronte l’Europa di oggi, tutte raggruppabili sotto l’etichetta della sicurezza: geopolitica, economica, climatica.

Partiamo proprio dalla grande sconfitta in Europa: la transizione verde. O meglio, non proprio. Partiamo dai costi della transizione verde, percepiti come eccessivi da una quota sempre più grande di popolazione europea. L’equilibrio è sempre stato delicato, perché accelerare lungo la strada della transizione, restare all’avanguardia, investire in ricerca e sviluppo in (e poi nell’adozione di) batterie o idrogeno verde, ha dei costi notevoli. Costi che oggi insistono su cittadini usciti decisamente provati dall’inflazione post-pandemia, aggravata dall’invasione russa dell’Ucraina e dal gioco di sanzioni e contro-sanzioni tra noi e Mosca. I costi dell’energia sono lievitati enormemente, seppur temporaneamente. Infine, la colpa è stata anche della politica, di alcuni strappi in avanti troppo netti e decisamente sbagliati: si pensi al tentativo dei verdi tedeschi di vietare le caldaie a gas in favore delle pompe di calore, o a quella europea di bandire il motore a combustione interna entro il 2035 in favore delle auto puramente elettriche. Così oggi viviamo un paradosso: i costi della transizione “normale” (per esempio l’installazione di pannelli fotovoltaici e pale eoliche) non sono mai stati così bassi, eppure la nostra percezione è che siano eccessivi. Già la Commissione von der Leyen, che aveva iniziano il suo mandato varando il Green Deal, si è rimangiata alcune promesse. Vedremo ulteriori frenate nel prossimo futuro. Decisamente un punto a favore delle destre europee.

 

La fatica degli aiuti all’Ucraina

Qualcosa di simile riguarda poi gli aiuti all’Ucraina. Anche qui, malgrado i cittadini europei dai sondaggi percepiscano ancora i rischi dell’invasione russa, si avverte fatica e disaffezione. La narrazione si è spostata sempre più sui costi di una guerra lunga, sulla necessità che Kiev (non necessariamente a guida Volodymyr Zelensky), faccia concessioni concrete pur di negoziare un cessate il fuoco, sulla difficoltà del complesso militare-industriale europeo e statunitense a reggere i ritmi della “economia di guerra” russa nella produzione degli armamenti. La maggioranza di centro farà molta fatica a mantenere il punto, visto che già al suo interno vi sono orientamenti diversi e interi partiti che “ballano”, al confine tra la scelta di ribadire il proprio sostegno all’Ucraina e quella di strumentalizzare il dibattito cavalcando l’onda di “i cittadini sono stanchi”. Anche in questo caso, un punto caro a molte destre europee – anche se non a tutte.

 

Dall’apertura economica alla chiusura

Infine, la sicurezza economica. Anche in questo caso a fare da spartiacque è probabilmente stata l’invasione russa dell’Ucraina, che ha svelato la fine della nostra grande illusione: quella, cioè, che maggiore interdipendenza significasse inevitabilmente più stabilità e più pace. Dall’esempio del ricatto russo sul gas naturale abbiamo imparato che eccessiva interdipendenza significa anche poter essere messi spalle al muro. Così, proprio quel gruppo di Paesi (Europa e Stati Uniti) che per decenni ha insistito sui benefici del libero commercio e del flusso indisturbato di capitali oltrefrontiera, sull’importanza della globalizzazione come motore dello sviluppo mondiale, oggi cerca opzioni per richiudersi. Senza sconfessare la globalizzazione, ma cercando di ridefinirne le geometrie in tutti quei settori che considera critici, e nei confronti di tutti quegli attori che considera sleali o pericolosi (qualcuno ha detto “Cina”?). Su questo tema è ormai molto difficile trovare in Europa chi la pensi diversamente (forse solo i liberali, ma certo non i liberali francesi di Macron…): tra le opposte ali del “grande centro” europeo, così come tra molti partiti dell’opposizione di destra, si è ormai concordi sulla necessità di proteggere l’industria europea dalla concorrenza sleale del Sud globale, anche a costo di prezzi più alti.

Tutto questo avrà conseguenze importanti e, temo, pericolose. In primis perché maggiore protezione dei settori verdi che ci servono per la transizione hanno conseguenze dirette sul prezzo dei prodotti, pale eoliche e pannelli. Se ci si pensa, è proprio quello di cui i cittadini hanno timore, e non vorrebbero vedere. Inoltre, imporre dazi, come ha fatto la Commissione europea proprio in queste settimane nei confronti delle auto elettriche provenienti dalla Cina (anche se prodotte da aziende europee!), significa esporsi al pericolo di ritorsioni e, nel peggiore dei casi, dare avvio a una guerra commerciale che renderebbe tutti meno un po’ meno sicuri e un po’ più poveri.

Sta probabilmente qui, la sfida dei prossimi cinque anni: non cadere nella tentazione delle sirene che invocano la chiusura entro i nostri confini nazionali. Il mondo è là fuori, e non è affatto detto che un mondo più chiuso, un mondo in cui tutti i paesi guardano verso il proprio ombelico, sia anche un mondo più sicuro.

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