Sul fronte delle pari opportunità nel mondo del lavoro sono stati fatti timidi passi in avanti nel corso degli ultimi anni, ma la strada da fare è ancora lunga. Soprattutto nel settore della libera professione, dove i gap culturale, di carriera e salariale tra uomini e donne sono ancora troppo elevati e penalizzano pesantemente il lavoro femminile.
Sono passati 61 anni dalla legge numero 66 del 1963 sulla “Ammissione della donna ai pubblici uffici e alle professioni” tra cui la magistratura, che ha aperto la strada alla parità di genere nel mondo del lavoro made in Italy. Da allora nel nostro Paese sono stati fatti piccoli timidi passi, ma l’obiettivo resta ancora lontano. Lo dice anche il report 2023 del Global Gender Gap redatto dal World economic forum, che posiziona l’Italia al 79° posto (era al 63° l’anno prima) su 146 Stati per gender gap. Anche se guardando lo spaccato della partecipazione e delle opportunità economiche che le donne hanno nel nostro Paese nell’ultimo anno si è avuto un lieve miglioramento che ci ha portati al 104° posto dal 110° dell’anno prima. Magra consolazione anche perché se si analizza la situazione nel mercato della libera professione la fotografia che ne emerge spegne ogni entusiasmo. A scattarla ci ha pensato l’ultimo Rapporto sulle libere professioni in Italia redatto, come ogni anno, dall’Osservatorio libere professioni di Confprofessioni. Basti dire che su un totale di un milione e 400 liberi professionisti le donne sono xxx. Di questi i titolari di studi professionali con dipendenti, però, sono in larga parte uomini: 144mila, contro 53mila donne, che rappresentano quindi solo il 26,9% del totale.
Poche titolari
Le donne, invece, continuano a ricoprire ruoli subordinati tanto che costituiscono l’85% della popolazione dipendente all’interno degli Studi, ricoprendo prevalentemente funzioni di supporto all’amministrazione, attività di segreteria e altre mansioni di tipo impiegatizio correlate allo specifico settore di business dello studio.
Si conferma quindi anche per gli studi professionali la femminilizzazione di questo tipo di mansioni, analoga a quanto rilevabile anche negli altri settori economici. Risultato: poche donne ai vertici anche se in possesso di adeguati titoli, basti dire che il 78,5 delle donne impiegate in studi professionali è in possesso di una laurea contro il 56,8% degli uomini. «La femminilizzazione delle professioni di ufficio e degli studi professionali è storica e non solo nel nostro Paese», commenta Paolo Feltrin, sociologo, politologo e coordinatore dell’Osservatorio libere professioni di Confprofessioni. «Semmai qui il problema è un altro ed è legato all’invecchiamento della popolazione che inevitabilmente, nei prossimi anni, ridurrà il bacino di reclutamento per questa tipologia di ruoli. Il che significa che sono posti di lavoro destinati a essere sostituiti in parte dalla tecnologia (AI generativa) e in parte da uomini e donne provenienti da Paesi esteri in possesso delle giuste competenze. Una tendenza che già inizia a intravedersi in alcune città del Paese».
Donne boom di part-time
Altro elemento importante che emerge dall’ultimo Rapporto di Confprofessioni è che nei nostri studi professionali il 48,6% delle dipendenti lavora part-time, mentre gli uomini, al contrario, sono impiegati a tempo pieno per il 90,8%. Ma Feltrin osserva: «Il fatto che quasi la metà delle donne nei nostri studi professionali abbia un contratto part-time non necessariamente rappresenta una negatività, perché in larga misura il contratto di lavoro viene scelto liberamente dalla singola persona. Del resto sappiamo bene che una delle esigenze più sentite dalla popolazione femminile è quella di conciliare al meglio il lavoro con gli impegni famigliari. Esigenza, peraltro, sentita in tutta Europa, dove il numero dei contratti part-time siglati da lavoratrici donne è doppio rispetto a quello italiano. Certo è che nel nostro Paese ci sono però due punti piuttosto delicati che andrebbero gestiti nel breve periodo. Il primo è come conciliare il part-time con i nostri tradizionali orari di lavoro, visto che la preferenza per chi decide di lavorare mezza giornata è quella di essere in ufficio la mattina. In questo caso una soluzione potrebbe essere quella di trovare incentivi a livello contrattuale per favorire il part-time pomeridiano. Il secondo aspetto da gestire è iniziare a proporre la mezza giornata lavorativa anche alla popolazione maschile, il che favorirebbe la condivisione del lavoro non retribuito tra uomini e donne, come la gestione della casa, dei figli o di genitori anziani, spingendo il full time tra le lavoratrici». Quello che gli analisti del welfare hanno da tempo definito come il modello dual earner – dual carer, dove cioè entrambi i componenti della coppia si dedicano – in egual misura – al lavoro e alla cura e che si fonda sull’idea di un’economia a full-time ridotto. All’estero sono diversi i Paesi che già si sono mossi in questa direzione più o meno decisamente come Stati Uniti, Canada, Paesi Scandinavi. Anche se la palma d’oro in questa direzione va ai Paesi Bassi, dove, nel 2000 il governo promulgò il “Work and Care Act” con il quale incentivò il part-time lungo sia per le donne sia (almeno sulla carta) per gli uomini, spingendo il politologo Jelle Visser a definire l’Olanda la prima “part-time economy” al mondo.
Pay gap al palo
Che l’Italia sia un Paese con ancora tanta strada da fare sul fronte delle pari opportunità lo dimostra anche il fatto che il gap salariale tra uomini e donne è ancora una triste realtà. E non solo negli studi professionali dove addirittura dal 2018 al 2022 è aumentato. Basti dire che nella fascia 35-44 anni la differenza di reddito tra uomini e donne è di 4.706 euro, per salire poi a 7.315 nella fascia di età 45- 54 anni e arrivare a 8.806 tra gli over 55. «Questo è un problema strutturale vero», dice Feltrin. «Dall’ultimo Rapporto emerge, per esempio, che aumenta soprattutto nelle posizioni intermedie per poi diminuire in quelle apicali. È una questione culturale che va indubbiamente superata al più presto». E negli altri settori le cose non vanno certo meglio. In base ai dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps, infatti, la differenza salariale tra uomini e donne nel settore privato nel 2022 ha raggiunto quasi gli 8 mila euro l’anno. Così se la retribuzione media annua complessiva di chi lavora in Italia è di 22.839 euro, risulta che per il genere maschile sia di 26.227 euro contro i 18.305 euro del genere femminile. Le differenze sono marcate anche tra i territori con le retribuzioni medie nel 2022 più elevate nell’Italia settentrionale, pari a 26.933 euro mentre per Sud e Isole le medie sono di 16.959 e 16.641 euro. Tra le Isole e il Nord-Est la differenza è di 7.333 euro. Un male esteso a tutta Europa dove in media le donne lavoratrici guadagnano il 12,7% in meno all’ora rispetto agli uomini. Le cause principali? La presenza marcata di lavoratrici in settori a bassa retribuzione come l’assistenza, la sanità e l’istruzione; il basso numero di donne in posizioni dirigenziali e con stipendi più bassi rispetto ai colleghi di pari grado e l’alto numero dei contratti part-time.
DISTICI DA SPARGERE NELL’IMPAGINATO
Il peso dei carichi famigliari
In base ai dati Istat, nel secondo trimestre 2023 il tasso di occupazione delle 25-49enni è stato dell’81,3% tra le donne che vivono sole; del 76,2% tra quelle che vivono in coppia senza figli e del 60,2% tra quelle con figli
Tasso di vulnerabilità
Il 27,2% delle donne presenta elementi di vulnerabilità legati alla precarietà lavorativa e/o all’impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno (part-time involontario). Tra gli uomini la quota dei lavoratori vulnerabili scende al 15,6%.
+1% di Pil l’anno
Stando a una ricerca fatta dalla casa d’investimento PGIM, una maggior partecipazione femminile al mondo del lavoro retribuito porterebbe a una crescita del Pil italiano di un punto percentuale l’anno, quindi più entrate fiscali e meno debito.
Conseguenze del gender pay gap
Il fenomeno del gender pay gap ha un impatto anche a lungo termine: stipendi più bassi significano guadagni minori nel corso della vita e quindi pensioni più basse, con il rischio di povertà in età avanzata
D&I
Una ricerca condotta da Valore D evidenzia che il 41% delle Pmi italiane considera “secondarie” o “non importanti” le iniziative diversity, equity and inclusion e poco più di un’azienda su 5 (16%) ha al suo interno una figura dedicata. Ma qualcosa si muove: la consapevolezza, da parte di dirigenti e manager, dell’importanza di valorizzare la diversità in azienda è in aumento (44%) o addirittura forte aumento (11%).
Mercato del lavoro futuro
Uno studio del McKinsey Global Institute afferma che entro la fine del decennio, ci saranno più donne che uomini a rischiare di perdere il lavoro a causa dell’avanzare dell’intelligenza artificiale e dell’automazione. Più in dettaglio, le donne avranno una probabilità 1,5 volte maggiore di dover trovare una nuova occupazione rispetto agli uomini. La causa? Le basse competenze in area Stem
Stem e dintorni
La forza lavoro tecnologica continua a essere dominata dagli uomini, che occupano anche la maggior parte dei ruoli tecnici e di leadership. Nello specifico, secondo il World Economic Forum, le donne rappresentano solo il 22% dei professionisti dell’IA a livello globale. Nel nostro Paese solo il 22% dei programmatori che si occupano di intelligenza artificiale è rappresentato da donne.