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Il dividendo demografico

Sta venendo a compimento nel XXI secolo un passaggio unico nella storia dell’umanità che porta ad un mutamento delle tradizionali fasi della vita e ad un’alterazione del tipico rapporto tra le generazioni, con implicazioni che mettono in discussione le basi che finora hanno consentito lo sviluppo economico e la sostenibilità sociale.

Il motore di questa grande trasformazione è la “transizione demografica”. La prima fase di questo processo è caratterizzata dalla riduzione dei rischi di morte in età infantile e giovanile. Via via che si abbassano i rischi anche nelle età successive, il livello di fecondità che garantisce il ricambio generazionale scende progressivamente verso il valore di due (bastano due figli per sostituire i genitori alla stessa età). Va così a restringersi la base della piramide demografica a fronte di una punta che si alza e allarga. Si entra così in una condizione del tutto nuova che impone la sfida di garantire sviluppo e benessere in un mondo in cui i giovani diventano una risorsa scarsa (“degiovanimento”) a fronte di una continua crescita della componente anziana (“invecchiamento”).

Il dividendo demografico

La fase in cui la fascia centrale in età lavorativa rimane ampia e prevalente su quella più giovane e quella più matura, viene chiamata “Dividendo demografico”. I paesi occidentali hanno oramai lasciato alle spalle tale dividendo perché le generazioni nate quando il numero medio di figli era superiore a due si stanno spostando verso l’età della pensione, mentre stanno entrando al centro della vita attiva quelle nate quando la fecondità è scesa sotto tale soglia. La sfida di vivere a lungo e bene può essere colta positivamente quanto più la popolazione in età attiva rimane solida: da tale componente dipende, infatti, la capacità di un Paese di generare benessere, ovvero di alimentare i processi di sviluppo economico e di rendere sostenibile il sistema sociale (finanziando e facendo funzionare il sistema di welfare). Si avvicinano a tale situazione le economie mature avanzate che nella fase finale della Transizione riescono a mantenere la fecondità non troppo sotto i due figli per donna (in Europa i Paesi più virtuosi in questo gruppo sono concentrati nell’area nord-occidentale, dove si segnalano in particolare i casi di Francia e Svezia).

Natalità e migrazione

Una prima azione strategica difensiva rispetto al mutamento della struttura demografica passa attraverso solide e continue politiche di sostegno alla natalità in combinazione con politiche migratorie. Agire in questa direzione consente di contenere la riduzione quantitativa della forza lavoro potenziale.

C’è poi un’azione in attacco che strategicamente possono mettere in atto i Paesi con processo di invecchiamento più avanzato. Si tratta del “secondo dividendo demografico” che corrisponde alla spinta alla crescita economica di una popolazione in cui si vive sempre più a lungo, in cui migliorano le condizioni di salute, in cui aumenta la quota di chi ha elevata formazione all’interno della forza lavoro (con coorti che entrano nelle varie fasi della vita con istruzione e capacità di uso delle nuove tecnologie via via più elevate). Assieme a tutto ciò le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia consentono anche di aumentare il contributo allo sviluppo del capitale umano femminile senza ricadute negative sulla fecondità. Nei Paesi scandinavi, in particolare, il divario occupazionale è molto basso sia tra uomini e donne, sia tra donne con figli piccoli e senza figli.

L’Italia risulta essere molto debole sia in difesa che in attacco. Di conseguenza si distingue per una combinazione di bassa natalità, bassa occupazione giovanile, bassa partecipazione femminile al mondo del lavoro, oltre che bassa capacità di attrazione di flussi migratori di qualità. Risulta, quindi, il Paese in Europa che in termini assoluti sta subendo la maggior riduzione della forza lavoro potenziale, con ricadute sempre più evidenti in tutti i settori, comprese le libere professioni.

Ripartire dalla formazione

L’afflusso solido e continuo delle nuove generazioni non è più scontato, ma va favorito in modo sistemico e strategico. Non è solo questione di essere di meno e di carenza di competenze richieste, ma anche per un mutamento di fondo del rapporto con il mondo del lavoro.

Servono quindi risposte generali, di sistema. In primo luogo un potenziamento di tutto il percorso formativo. Come mette bene in evidenza l’”VIII Rapporto sulle libere professioni” di Confprofessioni i bassi livelli di formazione terziaria rispetto alla media europea sono riconducibili soprattutto alla debolezza delle lauree triennali. È utile rafforzare anche la formazione terziaria non accademica con la filiera dei percorsi di formazione professionale che portano agli Istituti Tecnici superiori. Servono maggiori competenze avanzate ma anche trasversali che consentano ai giovani di portare nelle aziende e negli studi professionali capacità e sensibilità nuove, fondamentali per le sfide della transizione verde e digitale. Va di fondo migliorata l’interazione tra scuola e lavoro, aiutando i giovani a inserirsi in un percorso virtuoso in cui imparare e fare si stimolano a vicenda. Secondo i dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo i ventenni che nello stesso tempo studiano e lavoro risultano essere anche quelli più felici. In raccordo con tutto questo va sviluppato maggiormente l’orientamento e il sistema dei servizi per l’impiego. Va, inoltre, migliorata anche l’intraprendenza dei giovani, ovvero la possibilità di creare nuove opportunità trasformando le proprie idee in nuovi prodotti e servizi. Tra i freni maggiori in questa direzione nel nostro paese c’è il basso investimento in ricerca e sviluppo e l’eccesso di burocrazia.

Le potenzialità delle professioni

Ma non basta migliorare la qualità dell’offerta, serve anche una migliore qualità della domanda di lavoro e una maggior capacità dei vari ambiti lavorativi di essere attrattivi verso i giovani: è cruciale saper valorizzare il loro specifico capitale umano e mettersi in sintonia positiva con le nuove aspettative.

Su questo le libere professioni hanno buone potenzialità e ampi margini di miglioramento. Alla diminuzione dell’accesso documentata nel Rapporto è necessario rispondere con attenzione specifica al miglioramento della possibilità per i giovani di raggiungere un’autonomia economica, alla riduzione dei tempi per iniziare ad esercitare, al contenimento del gap di genere (su cui pesano anche le esigenze di conciliazione famiglia e lavoro per chi svolge attività autonoma). Non sembra, infatti, diminuito il desiderio di protagonismo dei giovani nel mondo del lavoro. I dati di una recente indagine di Assolombarda mostrano come la maggioranza delle persone nella fascia di età 18-26 veda positivamente un futuro da imprenditore o libero professionista. La sfida è rendere quel futuro accessibile, stimolante e soddisfacente in tutto il paese, Sud compreso.

 

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