Giustizia a piede libero

Nel 2023 calano le pendenze della giustizia civile e penale e si riduce la durata media dei processi. Ma dietro i numeri della suprema Corte di cassazione si nasconde un sistema giudiziario che fa acqua da tutte le parti. Le riforme di procedura civile hanno chiuso i palazzi di giustizia, si fanno processi senza udienze e i giudici decidono sugli atti senza ascoltare le parti. I penalisti protestano per la compressione del diritto di difesa, per la difficoltà delle impugnazioni e per gli eccessi della carcerazione. Senza contare le ingiuste detenzioni che finora sono costate 1 miliardo di euro.

Il 2024, per la giustizia italiana, ha il volto sdentato e irrimediabilmente triste di Beniamino Zuncheddu, il pastore sardo che venerdì 26 gennaio, a 59 anni, è finalmente uscito da un incubo giudiziario che l’ha costretto a viverne quasi 33 in carcere. Una tardiva revisione del processo ha riconosciuto Zuncheddu del tutto innocente del triplice omicidio avvenuto nel 1991 nelle campagne vicine a Cagliari, per il quale era stato condannato all’ergastolo.

Ma il volto sdentato e irrimediabilmente triste di Zuncheddu sembra davvero la rappresentazione scenica della giustizia italiana anche perché – grazie a una di quelle coincidenze che rivelano l’ironia del destino – proprio venerdì 26 gennaio s’è celebrata l’inaugurazione dell’anno giudiziario: una cerimonia che, come vuole tradizione, s’è svolta in forma pomposa e con tanto d’ermellini nelle 26 Corti d’appello italiane. Come sempre accade, da quelle solenni adunanze sono usciti discorsi lontani dalla realtà: retorici esercizi di burocrazia giudiziaria, o poco più.

I numeri della suprema Corte

Qualche cifra sulla giustizia nel 2023 era stata indicata il giorno prima da Margherita Cassano, primo presidente della suprema Corte di cassazione. Pare che l’anno scorso le pendenze della giustizia civile siano calate dell’8,2% nei tribunali e del 9,8% nelle Corti d’appello. Sembra si sia ridotta anche la durata media dei processi: in primo grado del 6,6% e del 7% in appello. «Merito soprattutto della mediazione» ha detto Cassano, in particolare nel campo delle successioni e del condominio, che tradizionalmente è quello dov’è più esasperata la litigiosità degli italiani (le cause civili tra condòmini, da sole, valgono circa 1 milione di procedimenti).

Nel penale, a sorpresa, pare sia andata anche meglio: le pendenze si sarebbero ridotte del 13% nei tribunali e del 6,5% in secondo grado. Anche la durata media dei processi penali sarebbe scesa: in tribunale a 310 giorni (rispetto ai 386 del 2022) e in Corte d’appello a 689 giorni (da 815). Alla fine, Cassano ha tirato una riga ottimista: saremmo vicini agli obiettivi fissati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, il mitico Pnrr europeo, che per l’Italia pretende un massimo di 282 giorni per il primo grado e di 601 giorni per il secondo.

Ma ogni ottimismo pare fuori luogo, e da celebrare c’è ben poco. Gli avvocati lamentano che le ultime riforme della procedura civile, di fatto, hanno chiuso i palazzi di giustizia e dicono che ormai si fanno processi senza udienze, che i giudici decidono sugli atti e senza più ascoltare le parti. I penalisti protestano per la compressione del diritto di difesa, per la crescente difficoltà delle impugnazioni, per gli eccessi della carcerazione.

Il peso dell’ingiustizia

In effetti, il disastro delle ingiuste detenzioni basterebbe, da solo, a far proclamare l’emergenza in qualsiasi paese civile. Perché il povero Zuncheddu non è un caso isolato: è solo l’ultimo di un esercito di 33.778 indagati e imputati che tra il 1991 e il 2023 sono stati rinchiusi per errore in una delle 189 prigioni italiane. Ogni anno, in media, vengono sbattuti in cella quasi mille innocenti: tre al giorno, uno ogni otto ore.

Chissà perché, nelle solenni inaugurazioni dell’anno giudiziario nessuno ne parla mai. E nessuno mai nota che tanta inutile sofferenza ha un prezzo (alto) anche per la collettività. Negli ultimi 32 anni gli arresti d’innocenti sono costati quasi un miliardo di euro all’amministrazione della giustizia, cioè a tutti noi. Per l’esattezza, in risarcimenti l’Italia ha speso 932.937.000 euro dal 1991 al 2022 (il dato del 2023 non è ancora noto).

Va sottolineato poi che questi numeri riguardano esclusivamente le denunce che vanno a buon fine, cioè quelle che dopo lunga e faticosa istruttoria vengono ammesse a un risarcimento dalla giustizia italiana, che però sempre fa muro e accampa cavilli indecorosi pur di non pagare. Altre migliaia di casi, quindi, restano non segnalati e non registrati. Si stima, insomma, che il vero fenomeno dei detenuti innocenti valga almeno il 30% in più.

Ecco: in Italia si può davvero «celebrare» la giustizia, se l’errore giudiziario è così diffuso? Di più: si può «credere» nella giustizia, davanti ai 60.814 detenuti (dato del 7 febbraio 2024), accatastati in celle dove i «posti regolamentari» (in base a una valutazione molto generosa) sono appena 51.179? Si può davvero sperare nella giustizia, sapendo che nei primi due mesi dell’anno i suicidi dietro le sbarre sono stati 18? Ed è giustizia quella che ogni anno, in media, libera dalle sofferenze tipiche del processo penale (oltre che dai suoi costi economici) 250 mila imputati, assolvendoli in via definitiva e con formula piena?

La riforma nel cassetto

È incredibile come l’Italia giochi a ignorare i mostruosi difetti della sua giurisdizione. Eppure gran parte della nostra politica è affetta da strabismo. Invece di scandalizzarsi per la vergogna planetaria delle prigioni italiane, per giorni – paradossalmente – ha preferito strepitare contro il «trattamento inumano» riservato dai magistrati ungheresi all’imputata-detenuta Ilaria Salis, portata in tribunale ammanettata ai polsi e alle caviglie. E ha preteso che il governo di Budapest costringesse quel suo tribunale a restituirci la reclusa. E anche questo è un bel paradosso, visto che tra le accuse rivolte a Viktor Orbàn dal resto dell’Europa civile c’è quella di voler esercitare un dominio incontrastato sulla magistratura.

Nel frattempo, da oltre un anno la politica continua ad accapigliarsi sul «programma minimo» di riforma messo in pista dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che punta ad abolire il reato di abuso d’ufficio e vuol porre qualche rimedio alla gogna mediatico-giudiziaria attraverso il divieto di pubblicazione dei «virgolettati» tratti dagli ordini di custodia (almeno soltanto fino all’udienza preliminare, quando la difesa ha qualche arma in più).

Eppure tutto il resto del «vasto programma» ipotizzato agli inizi da Nordio, il cuore della sua Grande riforma, resta nei cassetti. La separazione delle carriere, che dovrebbe rendere più autonomi i giudici dai pubblici ministeri, e così dare vera forza alle garanzie costituzionali di indagati e imputati, da oltre un anno è ferma in attesa che si discuta la riforma costituzionale del «premierato».

Fuori ruolo

Ora sembra fare retromarcia perfino il decreto delegato con cui, finalmente, veniva ridotto il numero dei magistrati «fuori ruolo». Da molti anni ci sono 200 toghe che – in violazione del fondamentale principio della separazione dei poteri – smettono di fare il loro lavoro perché, per decisione del Consiglio superiore della magistratura (e quindi delle correnti «ideologiche» in cui quest’ultima si divide) vanno a fare tutt’altro. La maggior parte di loro va occupare posti cruciali negli uffici legislativi e nei gabinetti ministeriali.

Nel giugno 2022, quando il Parlamento aveva varato la riforma dell’ordine giudiziario, la legge tra le altre cose aveva delegato il governo a ridurre il numero dei magistrati «fuori ruolo». Il problema è che 100 di loro lavorano proprio al ministero della Giustizia, quindi il loro potere di controllo su quel dicastero è totale. Si sperava che, grazie a Nordio, i 200 «fuori ruolo» sarebbero stati almeno dimezzati, per essere sostituiti da docenti universitari e da avvocati. Invece il decreto delegato predisposto da Nordio li ha ridotti appena del 10%: da 200 a 180. E ora c’è chi dice che si potrebbe tornare a 200.

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