Una delega all’inseguimento di una chimera

Ogni tentativo di sintesi sullo stato dei rapporti fisco-contribuente deve partire da due indiscussi dati di fatto. Il primo: la remunerazione dei fattori produttivi dal cui impiego dipende la crescita economica (lavoro e capitale) nel nostro Paese è tassata nettamente di più rispetto alla media dell’area euro. Per i redditi da lavoro l’aliquota implicita, infatti, è pari al 42,7% (media europea 38,6%), come ricordavano le Commissioni finanze riunite di Camera e Senato nella relazione del 30 giugno 2021. Mentre per i redditi di capitale l’aliquota implicita si attesta al 29,2% (media europea 23%). A ciò si aggiunga che le sanzioni tributarie sono da sempre, nella discutibile idea che in tal modo meglio si garantisca l’effettività delle entrate, particolarmente elevate, sovrapponendosi oltretutto, per i casi di maggior gravità, a quelle penali.

Il secondo: per rimediare all’eccesso di pressione fiscale sono stati varati a getto continuo nel corso degli anni regimi di favor per le categorie di contribuenti o per le tipologie di redditi ritenute di volta in volta più meritevoli. Essi lavorano sulle basi imponibili, si pensi a titolo esemplificativo ai super/iper ammortamenti o al patent box, o sulle aliquote, come capita per la cedolare secca sugli affitti, o su entrambe, è il caso del regime forfettario per lavoratori autonomi e imprese che conseguano ricavi inferiori a 85 mila euro. Il costante utilizzo del tributo come strumento di politica economica ha dato anche origine all’introduzione di numerosissime deduzioni, detrazioni, crediti di imposta, i cui effetti sono stati quelli di elevare oltre modo il tasso di complessità dell’ordinamento tributario, diventato negli anni sempre più discriminatorio e opaco (questo è l’inevitabile effetto del proliferare dei regimi sostitutivi) e, quindi, sempre meno intellegibile e governabile.

Tre conseguenze

Di qui, spontanea, una domanda: quali sono state le conseguenze sul procedimento tributario, di quell’insieme di regole che disciplinano il confronto amministrazione finanziaria-cittadino/contribuente, della descritta complessità in un sistema ad elevata pressione fiscale?

In estrema sintesi queste:

  1. gli adempimenti richiesti ai contribuenti sono diventati nel corso degli anni sempre più numerosi, sofisticati e impegnativi (un noto quotidiano specializzato ne aveva contati 205 per il solo mese, normalmente dedicato alla pausa estiva, di agosto 2022);
  2. si è assistito all’esplosione del numero degli interpelli in ragione della sempre più avvertita esigenza di certezza il che, tuttavia, ha dato origine a un incremento del numero delle pronunce ufficiali dell’Agenzia delle Entrate sugli specifici e particolari casi che le sono stati sottoposti, con conseguente prodursi dell’effetto opposto alla certezza per tutti i contribuenti diversi dall’interpellante [tanto che nell’art. 4, co. 1, lett. c), della delega, l. 9 agosto 2023, n. 111, si individua quale criterio direttivo quello della riduzione del numero degli interpelli, che diventeranno a pagamento];
  3. si è del pari assistito alla proliferazione degli strumenti deflativi del contenzioso (ravvedimento, accertamento con adesione, mediazione tributaria, conciliazione giudiziale), frequentemente utilizzati dai contribuenti più accorti anche a fronte di pretese infondate/illegittime: si cerca infatti, anche grazie alle rilevanti riduzioni delle sanzioni che essi garantiscono, di “chiudere” comunque la posizione pur di non affrontare il rischio del processo, ancora governato, in attesa dell’attuazione della riforma del 2022, da giudici non professionali e non a tempo pieno e da una Corte di cassazione che, anche per una non sempre sufficiente cultura speciale della giurisdizione, si è dimostrata in non rari casi ondivaga e incerta.

Una riforma, tre obiettivi

Una situazione particolarmente (verrebbe da dire, endemicamente) critica, di cui la legge delega di riforma fiscale cerca di farsi carico, nell’evidente assunto che un cambiamento radicale (quello di cui c’è veramente bisogno), dovrebbe passare prioritariamente da un’importante riduzione dell’entità del prelievo, dalla radicale semplificazione dell’ordinamento e dalla mitigazione della severità del sistema sanzionatorio: accade dunque che il primo dei “principi e criteri direttivi generali” contenuti nell’elenco di cui all’art. 2 della delega si incentri proprio sulla necessità di “stimolare la crescita economica e la natalità attraverso l’aumento dell’efficienza della struttura dei tributi e la riduzione del carico fiscale” [art. 2, co. 1, lett. a)] e che la “graduale riduzione dell’imposta” è prevista anche per il principale dei tributi, l’Irpef [art. 5, co. 1, lett. a), n.1)]. Con riferimento alla necessità della semplificazione, la legge delega punta, all’art. 21, sulla (quanto mai opportuna) redazione di testi unici e di un codice del diritto tributario

Si tratta tuttavia di risultati molto difficili da raggiungere perché il loro conseguimento dipende dall’andamento dell’economia, dalla stato della finanza pubblica, dai modelli culturali che prevarranno nei prossimi anni in merito alla funzione del tributo come strumento di redistribuzione (se si vorrà privilegiare l’anzidetta attitudine, com’è finora accaduto, ben difficilmente si otterranno risultati degni di nota dal punto di vista della semplificazione) e dalla capacità, l’esito è tutt’altro che scontato, di redigere testi unici e codici che, effettivamente, rendano più governabile e intellegibile il sistema.

Più facile da realizzare è invece l’attenuazione del carattere punitivo del sistema sanzionatorio, a cui è dedicato il corposo art. 20, laddove si prevede, tra le altre cose, che il delegato debba intervenire nell’intento sia di “migliorare la proporzionalità delle sanzioni tributarie, attenuandone il carico e riconducendolo a livelli esistenti in altri paesi europei”, sia di meglio coordinare i rapporti tra il procedimento penale e quello tributario.

Più semplificazione

Ma è importante anche soffermarsi su quegli interventi normativi che, quand’anche non risolutivi, dovrebbero comunque essere in grado di intervenire in senso garantistico (e quindi positivamente) sulla dialettica fisco-contribuente.

Il primo è la generalizzazione dell’obbligo del contraddittorio preventivo, “a pena di nullità” [art. 4, co. 1, lett. f) e art. 17, co. 1, lett. b)]. Sull’argomento bisogna essere chiari: si tratta certamente di una conquista, ma la portata dell’innovazione non va enfatizzata se il contraddittorio continuerà a essere utilizzato per costringere il contribuente ad anticipare la difesa in un momento in cui l’amministrazione è ancora in tempo per modificare i contenuti dell’emanando avviso di accertamento (e, quindi, per “aggiustare il tiro”).

Il secondo è l’estensione dell’applicazione dell’istituto dell’adempimento collaborativo che, anche grazie alla prevista certificazione del rischio fiscale da parte dei professionisti e al continuo confronto tra amministrazione e (grande-media) impresa, dovrà rendere più efficiente l’attività di controllo fin dalla fase della selezione dei soggetti da sottoporre a verifica, consentendo a chi lo applica di ottenere riduzioni (o, a certe condizioni, anche l’azzeramento delle sanzioni) e la riduzione dei termini di decadenza per l’attività di accertamento [art. 17, co. 1, lett. f), n. 1)]. Si tratta di percorso particolarmente interessante e fecondo perché modifica nella direzione della compliance meccanismi di controllo finora ispirati a modelli autoritativi/contrappositivi.

Il terzo, destinato ai soggetti di minore dimensione titolari di reddito di impresa o di lavoro autonomo, è il concordato preventivo biennale [art. 17, co. 1, lett. f), n. 2)], che si sostanzia nell’accettazione da parte del contribuente di una proposta dell’ufficio finanziario ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, con conseguente irrilevanza dei maggiori o minori imponibili effettivamente conseguiti nel biennio. Ad attrarre i contribuenti dovrebbe essere non tanto la semplificazione degli adempimenti, che rimangono nei fatti inalterati in ragione della non applicabilità del concordato all’Iva, quanto piuttosto la certezza dei carichi fiscali e la convinzione che ben difficilmente il soggetto che accetta la proposta sarà sottoposto a controllo. Ora, a parte che non è detto che sia sempre così, soprattutto nel caso in cui gli imponibili su cui è stato raggiunto l’accordo risultino ex post inferiori rispetto a quelli effettivi, va evidenziato che sembrano ben lontani dall’essere risolti sia i dubbi sulla compatibilità con i principi di uguaglianza e capacità contributiva (artt. 3 e 53, co. 1, Cost.) delle situazioni in cui chi non ha raggiunto il reddito/valore aggiunto prodotto previsto risulti comunque costretto a pagare la maggiore imposta, sia quelli sulla reale efficacia dell’istituto: è tutto da discutere che un numero significativo di contribuenti, in un contesto in cui i controlli fiscali sono infrequenti e rari, si sobbarchino preventivamente un carico fiscale che dovrebbe essere più alto (scopo del concordato è l’emersione degli imponibili) rispetto a quello a cui sarebbero sottoposti in assenza dell’accordo.

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