Espatriare per lavoro. A guidare le fila dei migranti italiani sono i medici, che hanno trovato un nuovo eldorado nei Paesi Arabi (ne parliamo a pag. XXX). Ma c’è anche l’avvocato che abbandona la toga per reinventarsi amministratore di condominio; l’architetto che dopo la laurea ha deciso di aprire un chiringuito alle Baleari o il dentista che alla carie ha preferito la passione per la fotografia. E poi ci sono i giovani neolaureati sempre più attratti dalla maggior stabilità offerta dal posto fisso. Scelte di vita motivate da un unico denominatore: la sempre più marcata precarietà della libera professione.
Il fenomeno non è nuovo, ma si trascina da anni senza trovare un qualunque appiglio in grado di invertire la rotta, nonostante gli sforzi messi in campo dalle associazioni e dagli ordini professionali per rendere più attrattivo il lavoro intellettuale. Neppure le “lusinghe” del Pnrr sembrano un valido stimolo per rivitalizzare il declino demografico della professione: le proiezioni della Ragioneria dello Stato dicono che nel 2022 le assunzioni a tempo determinato di tecnici ed esperti nella pubblica amministrazione si sono fermate a quota 2.500 rispetto alle 15 mila previste da Governo e Parlamento.
La professione invecchia e non fa figli. Si potrebbe riassumere così la parabola delle professioni in Italia e si sovrappone al declino demografico del Paese, che negli ultimi otto anni ha perso più di otto milioni di residenti con un indice di vecchiaia sempre più marcato, mentre il tasso di natalità diminuisce anno dopo anno. Fatte le dovute proporzioni, la stessa dinamica si può riscontrare nel mondo delle professioni, dove il numero degli iscritti alle Casse di previdenza privata regge solo grazie all’incremento dei pensionati attivi. Negli ultimi 15 anni si è assistito infatti a un progressivo invecchiamento della popolazione professionale, accentuato dal mancato ricambio generazionale. Stando agli ultimi dati dell’Osservatorio delle libere professioni di Confprofessioni e dell’Adepp (l’Associazione degli enti previdenziali privati), si assottiglia la fascia dei quarantenni e cinquantenni che vanno ad alimentare il bacino dei sessantenni e dei pensionati attivi, un dato tutto sommato fisiologico che, però, deve fare i conti con la fuga dei giovani under 40 dalla professione. In questa fascia di età si registra infatti il maggior numero di cancellazioni dalle casse previdenziali a un ritmo del 2% l’anno, ma la vera spina nel fianco dell’intero sistema professionale ordinistico è data dal preoccupante “calo di vocazioni” dei neolaureati verso la libera professione (-7,2% nel 2021).
Aumentano i contratti da dipendenti
La perdita di capitale umano negli studi professionali è certificata dall’ultimo rapporto 2023 di Alma Laurea sulla condizione occupazionale dei laureati. A un anno dalla laurea le forme di lavoro prevalenti sono i contratti alle dipendenze a tempo indeterminato (31,9% tra gli occupati di primo livello e 23,2% tra quelli di secondo livello) e solo il 10,4% degli occupati di primo livello e l’8,2% degli occupati di secondo livello svolge un’attività autonoma. La forbice si allarga ulteriormente se si prendono in considerazione i laureati a cinque anni dal conseguimento del titolo. In questa fascia la quota di chi è assunto con un contratto a tempo indeterminato supera la metà degli occupati e raggiunge il 68,2% tra i laureati di primo livello e il 51,1% tra quelli di secondo livello. Le attività di lavoro autonomo riguardano invece il 7,9% dei gli occupati di primo livello e il 16,7% di quelli di secondo livello.
Migranti made in Italy
Ad appesantire un quadro di per sé già allarmante, si aggiungono poi i 33 mila giovani laureati che – dice l’Istat – lasciano l’Italia per andare a lavorare all’estero e per almeno un terzo di questi si tratta di un viaggio di sola andata. Le ragioni sono da ricondurre alla “valorizzazione dell’istruzione”. Tradotto in termini più prosaici, significa che a cinque anni dalla laurea i giovani espatriati, a parità di titolo di studio, guadagnano il 61% in più rispetto ai laureati che restano in Italia e che spesso devono accontentarsi di posizioni professionali inferiori alle loro competenze. Ne sanno qualcosa, per esempio, i neolaureati in ingegneria che si vedono costretti a sbarcare il lunario nei call center.
«L’emorragia continua», commenta amaro il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella. «Andando avanti di questo passo si impoverisce il tessuto culturale del nostro Paese e al tempo stesso si indebolisce il sistema professionale. Le prospettive del mercato del lavoro negli studi professionali sono preoccupanti. La difficoltà ad attrarre neolaureati si incrocia pericolosamente con il declino strutturale demografico che impatta sui livelli occupazionali, dove tra il 1996 e il 2021 si è registrato un tracollo del 46% tra i giovani under 30. Stiamo assistendo a una vera e propria frattura generazionale, acuita da una forte polarizzazione reddituale tra i giovani e i senior che mette a rischio la sostenibilità di alcune casse previdenziali private nel lungo periodo».
Praticanti cercansi
Redditi modesti, turnover frenetico, più attenzione al work life balance sono le principali cause di un fenomeno che colpisce trasversalmente la quasi totalità delle categorie professionali. Negli studi legali, come pure tra i commercialisti, è quasi impossibile trovare un praticante e, sempre più frequentemente, l’unica soluzione è affidarsi ai cacciatori di teste. Quasi un paradosso se si pensa che negli ultimi dieci anni il numero di giovani avvocati è cresciuto del 30%. Tuttavia non mancano segnali di allarme che in prospettiva rischiano di sgonfiare il numero degli iscritti all’albo e alla cassa forense. A destare maggior preoccupazione è il calo degli studenti alla facoltà di Giurisprudenza che in dieci anni è diminuito di oltre il 30%, mentre lo scorso anno i laureati che hanno scelto la toga non hanno superato la soglia delle 10 mila unità. Un pericoloso trend che si riscontra anche nei dati del ministero della Giustizia che mostrano una continua flessione dei candidati all’esame di avvocato: si passa dai 25 mila del 2017 ai 14 mila del 2022. Intanto alcuni studi attuariali hanno già messo le mani avanti, sottolineando che tra vent’anni la contribuzione degli attivi non basterà a pagare le pensioni della categoria e la sostenibilità della Cassa forense sarà appesa al filo degli umori dei mercati finanziari.
Più laureati, meno professionisti
Professione che vai, problemi che trovi. Se tra gli avvocati cresce il numero dei giovani, i commercialisti devono invece fare i conti con la fuga dei laureati. Tra il 2021 e il 2022 si sono persi per strada 1.700 praticanti sulla scia di una tendenza che non si arresta dal 2013. Secondo la Cassa di previdenza dei dottori commercialisti negli ultimi dieci anni gli iscritti under 30 sono scesi del 3%, con un bilancio ancor più pesante tra i neoiscritti (-26%). In questo caso è evidente come l’aumento dei laureati (+32%) coincida con la loro scarsa propensione alla professione di commercialista che arretra del 15%. Se poi si aggiungono anche le cancellazioni alla Cassa di previdenza, che in dieci anni sono aumentate del 75%, emerge un quadro davvero allarmante. Eppure le ragioni della fuga dei giovani non sono tanto imputabili al reddito (che negli ultimi dieci anni è salito da 25 mila a 30 mila euro), quanto piuttosto ai gravosi orari di lavoro e al sovraccarico di adempimenti e di scadenze che, come ha calcolato l’Unione nazionale giovani dottori commercialisti, solo ad agosto ammontavano a 205. Un copione che si ripete anche tra i consulenti del lavoro, che tra il 2010 e il 2020 hanno registrato una flessione del 5% nelle iscrizioni all’albo e alla cassa di previdenza. E anche i 2.500 giovani che si abilitano alla professione incidono poco sulla popolazione professionale, tenuto conto che circa il 50% non si iscrive all’albo.
Il boom delle cancellazioni
Lo scenario non cambia anzi, forse, peggiora se si guarda al mondo delle professioni tecniche, dove la concorrenza del lavoro dipendente si è fatta schiacciante. Prendiamo, ad esempio, i dati di AlmaLaurea che indicano come nel 2021 solo il 3,2% dei laureati in ingegneria abbia imboccato la strada della libera professione. Qui il posto fisso è una calamita. Una scelta che fa riflettere se si pensa che a cinque anni dalla laurea la retribuzione mensile di un libero professionista è pari a 2.246 euro, mentre un ingegnere con un lavoro subordinato non raggiunge i 2 mila euro al mese. Ma anche una scelta che si riflette poi nell’emorragia di giovani iscritti alla Cassa di previdenza (-22% nel 2022), nonostante il sostenuto incremento dei partecipanti (e degli abilitati) all’esame di abilitazione alla professione. Una magra consolazione se è vero che negli ultimi dieci anni le cancellazioni sono cresciute del 75% (dati Inarcassa). Non va meglio ai “cugini” architetti che si ritrovano a fare i conti con la peggior crisi demografica degli ultimi dieci anni. Nonostante i dati più recenti indichino una netta ripresa delle nuove iscrizioni all’albo, cresciute del 25% nel 2022 (anche se il bilancio complessivo è ancora negativo), il numero di chi ha abbandonato cantieri e studi di progettazione è cresciuto in maniera esponenziale e stando ai dati forniti da Inarcassa, negli ultimi dieci anni le cancellazioni dalla cassa sono aumentate del 98%.
Più di 12 mila medici in uscita
Ancor più drammatico, se possibile, quanto sta accadendo tra le professioni sanitarie, dove l’invecchiamento dei camici bianchi e la carenza cronica di medici e infermieri sta mettendo a serio rischio la salute pubblica. Partiamo dagli ultimi fatti di cronaca. Se da una parte il Pnrr ha destinato alla salute oltre 15 miliardi di euro aprendo la strada di un profondo rinnovamento del Servizio sanitario nazionale, dall’altro si rincorrono le voci che indicano nella manovra di bilancio possibili tagli alla sanità per 300 milioni all’anno: altro sale su una ferita che non sembra rimarginarsi. Da anni le associazioni di categoria denunciano l’emorragia di medici e tra un paio d’anni un cittadino su tre potrebbe restare senza un medico di medicina generale. «Stiamo arrivando al picco di uscite per la gobba pensionistica. Tra i 12 e i 15 mila colleghi potrebbero lasciare la professione nei prossimi tre anni, con una punta massima tra il 2024 e il 2025», dice il segretario nazionale della Fimmg, Silvestro Scotti. «Se consideriamo che i nuovi medici di medicina generale formati saranno circa 2 mila ogni anno e che, tenendo conto degli abbandoni e di altri fattori possiamo dare per certi circa 1.500 effettivi, il gap è elevatissimo». Anche peggiore la situazione negli ospedali italiani, dove mancano all’appello più di 8 mila medici e 36 mila infermieri, numeri destinati a crescere nei prossimi cinque anni e già si parla di circa 45 mila posti vacanti nelle strutture ospedaliere. Insomma, tra i camici bianchi l’aria è pesante. Dice Scotti: «C’è una sproporzione enorme e dovremmo formare di più per colmare anche le carenze precedenti. Servono correttivi per rendere più attrattiva la professione. Su questo è necessaria una collaborazione a 360 gradi, a tutti i livelli».
A caccia di nuove leve
Nessuno, però, ha in tasca una ricetta universale per risolvere il problema, tante e tanto stratificate sono le cause che alimentano la fuga dalle professioni. «Il declino demografico, l’occupazione giovanile e il nanismo degli studi professionali sono fronti aperti sui quali la politica può e deve intervenire per rendere più attrattivo e competitivo il nostro settore», auspica il presidente Stella. «Gli studi professionali stanno attraversando una difficile fase di transizione, su cui incide anche la complessità e la durata dei percorsi formativi universitari. Inoltre molti studi, subissati da una pletora di adempimenti amministrativi, sono ancorati a vecchie logiche di mercato e si limitano ad attività di scarso valore aggiunto per il cliente. Altri ancora non hanno le risorse necessarie per crescere e investire».
Tuttavia, serve a poco leccarsi le ferite o discutere sulle cause di un fenomeno ormai acclarato. «Bisogna guardare avanti», dice Stella. «Ci sono diversi fattori che in prospettiva possono rendere più attrattiva la professione e ricondurre le nuove leve negli studi. Anzitutto occorre favorire i processi di aggregazioni multidisciplinari che, oltre a favorire l’accesso dei giovani nel mercato professionale, rappresentano la strada maestra per ripensare i modelli organizzativi degli studi dove la contaminazione tra diverse professionalità consentirebbe non solo una crescita dimensionale dello studio, ma anche l’espansione delle attività su nuovi mercati nazionali e internazionali. Anche le nuove tecnologie rappresentano una importante leva per cogliere le opportunità che si aprono con la transizione digitale. La digitalizzazione può rappresentare una spinta formidabile per la sostenibilità economica degli studi, per attrarre e trattenere i giovani talenti per il ricambio generazionale, per favorire la competitività e la capacità di fare sistema, per allineare le competenze e i modelli organizzativi alle mutate esigenze del mercato. Ma per tutto questo occorre un cambio di mentalità, che deve partire prima di tutto dagli stessi professionisti».