Ha l’ambizione di promuovere lo sviluppo socio economico in Africa e di trasformare l’Italia in un «hub» per l’approvvigionamento energetico in Ue, specie nel campo del gas. Ma i 5,5 mld di finanziamenti previsti sono pochi per raggiungere tutti gli obiettivi prefissati. Specie se paragonati agli investimenti di altri Paesi stranieri in terra africana. E non si tratta solo di Cina e Russia.
Promuovere uno sviluppo socio economico sostenibile, duraturo e stabilire rapporti di reciproco beneficio tra l’Africa e l’Europa. Questo l’intento del Piano Mattei, che prende il nome dallo storico presidente di Eni e si ispira al suo approccio “non predatorio” nei confronti del continente nero. Anche se l’ambizione sullo sfondo è di trasformare l’Italia in un «hub» per l’approvvigionamento energetico Ue, specie nel campo del gas, dopo il taglio delle importazioni dalla Russia, a seguito dell’invasione dell’ Ucraina da parte di Mosca.
«Un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub-sahariana», ha detto Giorgia Meloni nel discorso di presentazione tenuto durante il vertice Italia- Africa che si è tenuto a Roma lo scorso gennaio.
Nove i Paesi africani coinvolti nei progetti pilota: Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica democratica del Congo, Mozambico e 5 i settori le aree di intervento: energia, istruzione e formazione, sanità, acqua e agricoltura.
Energia, non solo gas
Per quanto riguarda l’energia gli interventi previsti si concentrano sul legame tra cambiamenti climatici ed energia e mirano ad aumentare l’efficienza energetica, l’uso delle rinnovabili e ad accelerare la trasformazione del sistema elettrico e le infrastrutture di trasmissione e distribuzione. Il Piano prevede anche lo sviluppo locale di tecnologie applicate all’energia attraverso la creazione di centri di innovazione dove le imprese italiane possano selezionare start-up locali, sostenendo così l’occupazione e il rafforzamento del capitale umano. Ma va evidenziato che molti dei progetti previsti seguono, di fatto, investimenti già avviati da Eni, che ha estesi interessi in diversi paesi africani e che rimane un elemento determinante della politica estera italiana nel continente.
Basti pensare al progetto “agri-hub” – impianti in grado di spremere olio vegetale da materie prime agricole in Kenya, la principale economia dell’Est Africa e uno dei più importanti mercati dell’Africa Sub-Sahariana, dove è stata appunto completata la costruzione dello stabilimento per la raccolta e spremitura di semi oleaginosi a Makueni ed è stata avviata la produzione del primo olio vegetale per le bio-raffinerie prodotto su terreni semi-aridi, abbandonati o marginali, per non entrare in competizione con la filiera alimentare.
Senza naturalmente tralasciare l’impegno del nostro paese nello sviluppo, tramite Snam, del South H2 Corridor, la rete di gasdotti per il trasporto dell’idrogeno attualmente in fase di sviluppo per collegare Germania, Austria e Italia alla Tunisia che comprende circa 3.300 km di condotte e diverse centinaia di MW di capacità di compressione, destinati a diventare assets strategici per il passaggio e l’utilizzo di idrogeno entro il 2030.
Lo sviluppo del SoutH2Corridor, che fa parte della European Hydrogen Backbone, sarà fondamentale per la creazione di una spina dorsale dell’idrogeno interconnessa e diversificata nel sud e nel centro dell’Europa.
Un tema, quello dell’idrogeno, che nelle relazioni UE l’Africa continuerà ad avere sempre maggiore rilievo, come si può evincere dagli impegni, degli ultimi mesi, del Kenya che ha lanciato la sua strategia e roadmap sull’idrogeno verde in collaborazione con l’UE. In una fase di implementazione iniziale, fino al 2027, il paese punta, infatti, a 100 MW di capacità di elettrolisi installata e circa 150 MW di energia rinnovabile dedicata alla produzione di idrogeno.
Formazione per tutti
Sul fronte della formazione, invece, lo scopo principale del Piano è l’aggiornamento degli insegnanti, oltreché l’adeguamento dei programmi di studio per la popolazione locale, l’apertura di nuovi corsi di formazione professionale in linea con le esigenze del mercato del lavoro e la promozione della cooperazione con le imprese, in particolare con il coinvolgimento di manager italiani e l’utilizzo del “modello” italiano delle Pmi.
Mentre per quanto riguarda la sanità gli interventi previsti mirano a rafforzare i sistemi sanitari esistenti migliorando l’accesso e la qualità dei servizi essenziali per la salute materno-infantile, rafforzando le capacità locali in termini di gestione, formazione e impiego del personale sanitario, ricerca e digitalizzazione.
Acqua e agricoltura
In un settore strategico per lo sviluppo del territorio africano come quello dell’acqua, gli interventi previsti dal governo Meloni comprendono la trivellazione di pozzi alimentati da sistemi a energia solare, la manutenzione dei punti di approvvigionamento idrico esistenti, investimenti in nuove reti di distribuzione dell’acqua e l’educazione della popolazione all’uso di acqua potabile.
Mentre per quanto riguarda l’agricoltura il piano intende ridurre i tassi di malnutrizione, promuovere la crescita delle filiere agroalimentari e sostenere lo sviluppo di biocarburanti non fossili. Lo sviluppo dell’agricoltura familiare, la tutela del patrimonio forestale, la lotta e l’adattamento al cambiamento climatico attraverso l’agricoltura integrata.
5,5 miliardi sul tavolo
Un lavoro importante, per realizzare il quale il governo ha messo sul tavolo una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro, dei quali circa 3 verranno dal Fondo italiano per il clima gestito da Cassa Depositi e Prestiti e circa 2,5 miliardi dalle risorse della Cooperazione allo Sviluppo. Questo, di fatto, significa che fondi già esistenti verranno “dirottati” sui progetti che il governo intende sostenere nei Paesi africani coinvolti dal Piano Mattei. Come: l’Etiopia, dove verrà sviluppata la filiera dei biocarburanti, la riqualificazione infrastrutturale delle scuole; la Tunisia che vedrà potenziate le stazioni di depurazione delle acque; il Congo, dove è prevista la costruzione di pozzi e reti di distribuzione dell’acqua a fini agricoli; il Kenya che vedrà ulteriormente svilupparsi la filiera dei biocarburanti in Kenya; la Costa d’Avorio dove verrà garantita l’accessibilità e la qualità dei servizi primari di cura. Sarà poi avviato in Algeria un progetto di monitoraggio satellitare sull’agricoltura; in Egitto la produzione di grano soia, mais e girasole, con investimenti in macchinari, sementi, tecnologie e nuovi metodi di coltivazione; mentre in Mozambico sarà costruito un centro agroalimentare per le esportazioni dei prodotti locali.
La cabina di regia
Per il coordnamento di tutte le attività, la finalizzazione e l’aggiornamento costante del Piano, il monitoraggio della sua attuazione e l’approvazione della relazione annuale al Parlamento è stata istituita una cabina di regia composta da Antonio Tajani, ministro degli Esteri e Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del made in Italy. Hanno voce in capitolo nell’iniziativa anche la Conferenza delle regioni, l’Agenzia italiana per la cooperazione e quella per l’internazionalizzazione delle imprese italiane. Ma nella task force dell’operazione hanno posto anche Cassa depositi e prestiti, la holding che reinveste il risparmio postale, il gruppo assicurativo controllato del ministero dell’ Economia, Sace e Simest, che supporta la crescita delle imprese italiane nel mondo.
Tante ambizioni pochi soldi
Al di là dell’organizzazione e degli obiettivi sulla carta, al momento, il Piano appare però un contenitore nel quale si inseriscono progetti pianificati da tempo e altri da pianificare ex novo. Ma, per molti, gli investimenti previsti sono modesti per realizzarli con successo e per raggiungere l’alto obiettivo di quel “rapporto tra pari, imperniato sul commercio e la cooperazione economica” che il governo Meloni si è preposto. Soprattutto se si confronta la cifra italiana con quella messa a disposizione da altre nazioni già presenti in Africa come Cina, Giappone, Turchia e India. Basti dire che nel 2022 il Giappone, della cui presenza in Africa si parla ben poco in casa nostra, si è impegnato a investire per lo sviluppo del continente nero circa 30 miliardi di dollari Usa, tra soldi pubblici e privati. Somma destinata a coprire un solo triennio. Così il piano Mattei, come già rilevato da molti osservatori economici, al di là delle ambizioni, sembra avere un cabotaggio più modesto, non troppo diverso dal solito scambio: meno migranti in cambio di investimenti e aiuti economici sotto varie forme. Non è un caso che Moussa Faki, presidente della Commissione dell’Unione africana, nel suo discorso al vertice Italia-Africa rivolgendosi alla premier Meloni abbia detto: “Signora presidente del Consiglio, sul Piano Mattei che propone avremmo auspicato di essere consultati.L’Africa è pronta a discutere contorni e modalità dell’attuazione. Insisto sulla necessità di passare dalle parole ai fatti, non ci possiamo più accontentare di promesse, spesso non mantenute”. E per effettuare questo fondamentale passaggio il Piano Mattei dovrebbe essere sostenuto dall’Unione Europea attraverso i fondi del Global Gateway, fondi per lo sviluppo, tra l’altro, di infrastrutture nei settori del digitale, energia e trasporti, che ammontano a 150 miliardi di euro. Ma sulle possibilità di successo di questo sostegno molti quotidiani africani sono scettici.
Indubbiamente il piano Mattei ha il pregio di avere messo al centro dell’attenzione pubblica italiana l’importanza dei rapporti economici, commerciali, sociali e politici con gli stati africani con un impegno assunto ai massimi livelli, ma il governo Meloni deve lavorare molto non solo per assicurare le necessarie risorse per il suo successo ma anche per mettere meglio a fuoco i campi di investimento equilbrando, per esempio, gli interventi prevsiti in campo energetico: meno fossili più green. Come già stanno fcendo altri Paese esteri.