Con l’elezione di Pellegrini alla presidenza della repubblica, le istituzioni slovacche sono in mano ai partiti nazionalisti e filo-russi, che contestano l’invio di armi dell’Ue all’Ucraina e stringono alleanze con l’ungherese Orban. Un campanello d’allarme per Bruxelles, in vista delle prossime elezioni europee di giugno.
La vittoria Peter Pellegrini alle elezioni presidenziali della Slovacchia agita i sonni delle istituzioni europee. Con una maggioranza del 53,26%, il 48enne economista di origini italiane, già primo ministro dal 2018 al 2020, ha battuto lo scorso 6 aprile al ballottaggio il candidato europeista e filo-atlantista, l’ex ministro degli Esteri Ivan Korcok. Appoggiata dal partito di sinistra “Direzione – Socialdemocrazia” (Smer – SD) del primo ministro Robert Fico, l’ascesa di Pellegrini a Palazzo Grassalkovich, la sede della presidenza della repubblica a Bratislava, sancisce di fatto la svolta nazionalista del Paese. Uno scambio di cortesie, in fondo, dopo che il partito del neo-presidente, Hlas-Sd, lo scorso ottobre aveva sostenuto la rielezione di Fico al Consiglio nazionale, il Parlamento unicamerale della Slovacchia. Nella notte della sua elezione, il primo messaggio di Pellegrini voleva rasserenare gli animi di Bruxelles, promettendo di «garantire che la Slovacchia rimanga dalla parte della pace e non dalla parte della guerra». Un sottile equilibrio retorico, invece, per sottolineare la sua distanza dalle politiche di sostegno dell’Ue all’Ucraina, ma anche per ribadire l’alleanza di ferro con il filo-russo Fico, fortemente contrario all’invio di armi a Kiev. Con la vittoria di Pellegrini alle presidenziali e il parlamento nelle mani di Fico, la bandiera dei partiti nazionalisti sventola sui palazzi delle istituzioni slovacche. Certo, i poteri del presidente della repubblica si limitano sostanzialmente al cerimoniale, ma il capo dello Stato nomina una parte dei membri del consiglio giudiziario, del consiglio di bilancio e della Corte costituzionale.
L’amico Orban Ora, la sconfitta dell’avversario di Pellegrini, il 60enne Korcok, appoggiato dall’opposizione liberale e cristiano-democratica, rinsalda il potere di Fico e la sua politica di governo che rispolvera alcuni temi tanto cari ai “democratici illiberali”: rigida accoglienza verso i migranti, netto rifiuto dei diritti Lgbtq+, dura opposizione all’adesione dell’Ucraina alla Nato. La svolta radicale del paese mitteleuropeo va a ingrossare le fila degli alleati del famigerato uomo forte ungherese.
Dichiaratamente contrario alle sanzioni alla Russia, Viktor Orban, sta cercando sponde nei leader nazionalisti di altri paesi europei ripristinare quelli che considera “valori tradizionali”, ma anche per bloccare le decisioni “poco gradite” prese a Bruxelles. Quasi contemporaneamente agli slovacchi, anche i polacchi sono stati chiamati a votare, questa volta per i governi locali, in un’elezione che è stata in gran parte vista come un test per la popolarità del primo ministro europeista, Donald Tusk, che ha meno di sei mesi fa è riuscito a sconfiggere di misura il partito euroscettico e ultraconservatore “Legge e Giustizia” (PiS) e a riportare Varsavia in linea con Bruxelles. Sfortunatamente per Tusk, i risultati sono stati una battuta d’arresto per le sue speranze di consolidare la sua presa sul potere. Il PiS ha conquistato il voto popolare con un convincente 34,27%, mentre il partito del premier Tusk ha dovuto accontentarsi di mantenere il controllo nella capitale Varsavia e in alcune grandi città come Danzica. Occhio alla BulgariaCon le elezioni europee a soli due mesi dall’inizio, gli occhi di tutti sono ora puntati sulla Bulgaria. Dopo lo scandalo dei passaporti falsi che avrebbe consentito ai russi di acquisire la cittadinanza bulgara, lo scorso 1° febbraio il primo ministro Nikolay Denkov ha rassegnato le proprie dimissioni e il prossimo 9 giugno i cittadini andranno a votare per un nuovo Parlamento e, contemporaneamente, per il rinnovo dei membri del Parlamento europeo. Dall’aprile 2021 è la sesta volta che i bulgari sono chiamati alle elezioni: sintomo che l’élite politica del Paese sembra sempre più incapace di elaborare un piano credibile per lottare contro la corruzione diffusa e di ripristinare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche.
La costante crisi del sistema ha di fatto aumentato il peso del capo di Stato filo-russo, il presidente Rumen Radev, che è stato rieletto nel 2021 per un secondo mandato quinquennale con un trionfante 66%. Il 60enne Radev, che ha il diritto di veto sulla legislazione, sta svolgendo un ruolo molto attivo nella politica bulgara e, in un refrain già visto in Slovacchia, non ha nascosto la sua opposizione a qualsiasi ulteriore sostegno all’Ucraina, definendo apertamente i partiti che sostengono Kiev come “partiti della guerra”. Ovviamente non c’è dubbio che il presidente ora farà attivamente una campagna a favore di un’agenda a favore della pace, lanciandosi contro «coloro che desiderano bruciare la Bulgaria nel fuoco della guerra». Ben lungi dal persuadere gli elettori a sostenere la causa dell’Ucraina, il discorso di Radev sta sollevando il timore, molto comprensibile, di un conflitto armato, spingendo la Bulgaria direttamente nell’abbraccio di coloro che, sotto la copertura della campagna per la pace, stanno promuovendo programmi liberticidi. Prima questa tendenza si fermerà, maggiori saranno le possibilità per un Parlamento europeo non dipendente da personaggi come l’autoritario premier ungherese, e per il futuro dell’Unione come faro della democrazia e dei diritti umani in un mondo sempre più diviso.