Sono tre le dinamiche con cui aziende e società civile si trovano a fare i conti nel XXI secolo: il definitivo ingresso in una economia post-industriale, dominata dal settore terziario, al cui centro ci sono le alte professionalità; le conseguenze del declino demografico e gli impatti delle tecnologie digitali sulle libere professioni. Ed è proprio su queste tematiche che si focalizza l’VIII Rapporto sulle Libere professioni in Italia di Confprofessioni, con l’obiettivo di fare un bilancio di medio periodo prendendo come punti di riferimento i due spartiacque rappresentati dagli anni del Covid (2020-21) e dal quarto di secolo che, quasi, ci separa dall’inizio degli anni duemila.
Tre tendenze che si inseriscono in un quadro economico europeo complesso, che ha visto alcuni paesi crescere e altri restare al palo per poi mutare ancora direzione. Nello scorso anno, per esempio, il Pil pro capite in Italia è stato superiore a quello del 2019, diversamente da quanto avvenuto in Francia, Germania e Spagna, dove la ripresa non ha consentito di recuperare interamente i livelli pre-pandemici. Tuttavia la congiuntura più recente (II trimestre 2023), ha espresso un tasso di crescita nullo nell’Unione europea a 27 paesi. Solo Francia e Spagna hanno messo a segno un’ulteriore crescita del Pil, mentre quello made in Italy ha registrato un calo dello 0,4%. Tuttavia, a livello Ue, la crescita si è poi arrestata negli ultimi trimestri, tanto che la congiuntura più recente (II trimestre 2023) esprime un tasso di crescita pari a zero.
La corsa del terziario
Al di là dei Sali e scendi dei Pil dei Paesi europei, va detto che il covid non ha messo in discussione le tendenze di fondo degli ultimi decenni, a cominciare dalla continua crescita del settore terziario in tutto il Vecchio continente, dove i servizi contribuiscono per il 73,1% al prodotto interno lordo complessivo Ue. In alcuni Paesi il processo di terziarizzazione ha avuto ritmi di crescita particolarmente incalzanti: è il caso soprattutto della Spagna, dove la quota di Pil derivante dai Servizi è passata dal 67,1% del 1995 al 76,1% del 2022; ma anche della Francia, dove il Pil del terziario ha ormai superato l’80% del totale. La portata del processo di terziarizzazione della nostra economia appare ulteriormente apprezzabile se lo si osserva in riferimento alla composizione degli occupati per settore di attività. L’Italia, infatti, ha subìto una trasformazione radicale: negli anni sessanta era un’economia basata principalmente sull’industria (40,4%) e sul primario (29,0%), ora le percentuali si sono rovesciate e quasi il 70% degli occupati operano nei settore dei servizi.
Tabella 1: Composizione del Pil per branca di attività economica e differenza 2022-1995 in Francia, Germania, Italia, Spagna e UE (27 paesi)
1995 | 2004 | 2013 | 2022 | Differenza 2022-1995 | |
Francia | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | – |
Agricoltura, silvicoltura e pesca | 1,9 | 1,9 | 1,6 | 1,5 | -0,4 |
Industria e costruzioni | 22,5 | 22,6 | 20,2 | 18,0 | -4,5 |
Servizi | 75,6 | 75,6 | 78,2 | 80,5 | +4,9 |
Germania | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | – |
Agricoltura, silvicoltura e pesca | 0,9 | 1,1 | 0,8 | 0,7 | -0,2 |
Industria e costruzioni | 32,0 | 29,5 | 29,5 | 29,1 | -2,9 |
Servizi | 67,1 | 69,4 | 69,7 | 70,2 | +3,1 |
Italia | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | – |
Agricoltura, silvicoltura e pesca | 2,3 | 2,2 | 2,3 | 1,9 | -0,3 |
Industria e costruzioni | 28,9 | 27,2 | 23,8 | 24,7 | -4,2 |
Servizi | 68,9 | 70,5 | 73,9 | 73,4 | +4,5 |
Spagna | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | – |
Agricoltura, silvicoltura e pesca | 2,8 | 2,9 | 3,0 | 3,0 | 0,2 |
Industria e costruzioni | 30,2 | 30,0 | 22,1 | 20,9 | -9,2 |
Servizi | 67,1 | 67,1 | 74,9 | 76,1 | +9,1 |
UE (27 paesi) | 100,0 | 100,0 | 100,0 | 100,0 | – |
Agricoltura, silvicoltura e pesca | 2,1 | 2,0 | 1,8 | 1,6 | -0,5 |
Industria e costruzioni | 28,2 | 27,4 | 25,1 | 25,3 | -2,9 |
Servizi | 69,7 | 70,6 | 73,0 | 73,1 | +3,4 |
Valori in %. Anni 1995, 2004, 2013 e 2022.
Fonte: elaborazioni Osservatorio delle libere professioni su dati OECD
Una crescita quella del terziario, che nel nostro Paese va a discapito principalmente del settore industriale, a eccezione del Nord Est, dove la riduzione del peso dell’industria, dal 1995 a oggi, è stato solo dello 0,5 %. Terziarizzazione significa innanzitutto centralità delle alte professionalità e centralità delle aree urbane. Anglicismi come ‘gentrificazione’ (la riqualificazione di aree urbane degradate in quartieri cool per i nuovi ceti medi), oppure la crescita inattesa dei prezzi delle case e degli affitti nelle città, altro non sono che due manifestazioni tangibili di un nuovo ciclo di ri-urbanizzazione nel quale siamo entrati come effetto proprio della terziarizzazione. Da qui la necessità di approfondire e di investire sul tema delle città, della loro accessibilità e della loro riorganizzazione in funzione di questo cambio di figure lavorative che le caratterizzano.
Due Italie
Il tema della città richiama con sè la ben nota questione meridionale. Infatti, se nel nostro paese la dinamica della terziarizzazione è la stessa che nel resto d’Europa, essa è però meno accentuata a causa del ben note disparità territoriali tra Nord e Sud del paese. A partire dai tassi di occupazione. L’Italia è caratterizzata da un basso tasso di occupazione, basti dire che nel 2022 viaggiava intorno al 60,1%, quasi 10 punti sotto il tasso medio europeo e ben 17 punti percentuali sotto il tasso occupazionale tedesco. Tutti gli altri grandi Paesi europei si collocano ben al di sopra del nostro per quanto riguarda i volumi occupazionali. Ma il dato medio rischia di portare in errori di analisi e in politiche del lavoro inefficaci. Insomma, il problema italiano è in grandissima misura la conseguenza della persistente frattura Nord-Sud. E’ su questo tema che andrebbe posta maggiore attenzione. Ci sono infatti ben 22 punti percentuali di differenza tra la fetta di occupati nella ripartizione Istat delle Isole (nel 2022 avevano un tasso di occupazione del 45,6%), e la ripartizione Nord Est (che vanta un’occupazione pari al 69,0%). Analogo discorso per le donne, con il Nord che si colloca nella media europea e un Sud ancora lontano dal suo raggiungimento, abbassando così il dato nazionale.
Il problema, dunque, non va affrontato in termini di politiche del lavoro generali ma attraverso specifiche politiche economiche per lo sviluppo meridionale. I liberi professionisti, proprio per le loro competenze, potrebbero essere una delle colonne portanti di questa nuova stagione di investimenti nel Sud non a caso Confprofessioni si sta impegnando molto in prima linea per far entrare il tema del Meridione nell’agenda della discussione pubblica e delle conseguenti politiche economiche da adottare.
Giovani merce rara
Un altro aspetto che condiziona lo sviluppo del nostro Paese è la progressiva contrazione dei tassi di crescita naturale della popolazione che ha, tra le conseguenze, una profonda trasformazione della struttura demografica: aumentano gli anziani, diminuisce la popolazione in giovane età. L’Italia è il paese che conta la maggior riduzione di popolazione in giovane. Di nuovo, è nel Mezzogiorno d’Italia che la struttura demografica è cambiata maggiormente negli ultimi vent’anni: nel 2022 il numero di residenti nella fascia d’ età 0-29 anni si è ridotta di quasi 30 punti percentuali rispetto al 2002. In lieve riduzione risultano anche gli abitanti in età adulta (30-59), mentre la popolazione over 60 del meridione è aumentata sensibilmente (+35%). Un cambiamento che pesa non poco anche sul mercato del lavoro e ne limita il ricambio generazionale.
Con l’aumento dei livelli d’istruzione l’ingresso nel mondo del lavoro dei pochi giovani italiani avviene, infatti, sempre più tardi. Inoltre, l’età in cui si dovrebbe concludere il percorso di studi è ben lontana dal valore medio in cui effettivamente i giovani lo portano a termine. Ad aggravare la situazione nazionale si aggiungono lo scarso successo dei percorsi brevi di istruzione terziaria, conclusi solo dall’11,8% dei giovani tra i 25 e i 34 anni, e la presenza del 26,0% dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, i cosiddetti Neet. Anche perché il nostro sistema scolastico non incentiva la partecipazione degli studenti al mercato del lavoro. L’Italia è, tra i grandi paesi europei, quello con la più bassa percentuale di studenti impegnati in qualche forma di occupazione: solo il 3%. Di contro la Germania, grazie a percorsi che conciliano l’esperienza lavorativa e lo studio, arriva al 23,5% di giovani studenti lavoratori. Il tema dell’istruzione terziaria diventa dunque una priorità strategica alla quale dedicare il massimo di attenzione se si vuole evitare il rischio, tra qualche anno, di avere la stessa carenza di laureati che oggi registriamo nel comparto della sanità, in tutte le altre professioni. Nonostante l’evidenza dei numeri, società, istituzioni e le stesse classi dirigenti, finora, hanno dedicato troppo poco tempo all’approfondimento delle tematiche che riguardano la formazione terziaria. Da qui la necessità di avanzare proposte organiche in materia di ampliamento degli ingressi nei percorsi formativi post-diploma, lunghezza dei cicli universitari, radicale diminuzione degli abbandoni scolastici, incentivazione del lavoro durante gli studi.
1 professionista su 2 over50
In questo quadro complesso i liberi professionisti hanno avuto una forte crescita nel contesto occupazionale europeo: +24,7% tra 2009 e 2019. Tale dinamica positiva è proseguita anche nel periodo più recente (+3,1% nell’ultimo anno e + 3,5% tra 2019 e 2022). Il decennio 2009-2019 ha visto un’espansione delle libere professioni ovunque in Europa senza eccezioni, mentre negli anni più recenti le dinamiche si diversificano: in particolare, alcuni Paesi – Germania e Italia in primis – hanno sofferto maggiormente la crisi economica indotta dalla pandemia con perdite significative tra i lavoratori autonomi. Al contrario, altre nazioni – come i Paesi Bassi, quelli dell’Est Europa e della Penisola iberica – hanno mantenuto un trend di crescita. Ma, anche in questo settore, si assiste a un netto calo della componente giovanile in tutta Europa dove, oggi, quasi un libero professionista su due ha più di 50 anni.
Restringendo il campo all’Italia possiamo dire che i liberi professionisti sono calati di circa 53 mila unità nel periodo 2021/2022, confermando la dinamica negativa cominciata nel 2017, anno di massimo storico registrato nelle serie storiche Istat. Tuttavia nel 2022 gli Studi professionali con dipendenti hanno registrano una variazione positiva del 6,1%, con il recupero di quasi 11 mila unità, un trend che compensa, almeno in parte, il calo di quelli senza dipendenti. Nel 2023, invece, si è avuta un’ inversione della tendenza, anche se per il momento è difficile valutare se si si tratta di un fenomeno destinato a durare o meno. Anche perché, sulla base delle rilevazioni di Almalaurea, la crescita dei neolaureati va ad alimentare esclusivamente il bacino dell’occupazione dipendente: la propensione verso la libera professione appare in calo – con un’incidenza che passa dal 22 al 18% – con una conseguente diminuzione delle nuove leve di professionisti laureati che passano dai 20.795 del 2018 ai 18.644 del 2022, con una variazione negativa di oltre 10 punti percentuali.
Queste dinamiche negative -calo demografico, basso appeal delle libere professioni nei giovani laureati, calo del numero complessivo dei liberi professionisti- sembrerebbero in contraddizione con l’orientamento alla terziarizzazione delle economie contemporanee, ma non è così perché di mezzo c’è la forza dirompente delle tecnologie digitali e le sue conseguenze. Da una parte, in moltissimi ambiti professionali, l’informatica e la digitalizzazione riducono i posti di lavoro, anche quelli delle alte professionalità; dall’altra, le stesse variabili spingono ad aumentare le dimensioni aziendali, anche quelle degli studi professionali. Approfondire le conseguenze di questa rivoluzione tecnologica appare la grande sfida che sta davanti a noi nel prossimo futuro.