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Il Mes, il diavolo e l’acqua santa

L’Italia, ad oggi, è l’unico Paese europeo a non aver (ancora) ratificato il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) impedendone per ora l’attuazione. Lo scorso 30 giugno, la maggioranza ha depositato una mozione di sospensione, per una durata di quattro mesi, dei lavori parlamentari di ratifica che si erano appena aperti. Il Mes ha una radice giuridica nei trattati europei e, specificamente, alla nuova formulazione (approvata a cavallo tra il 2011 e il 2012) dell’art. 136 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), ove viene prevista la facoltà di istituire un meccanismo da attivare ove sia indispensabile intervenire per garantire la stabilità dell’eurozona e/o la concessione di assistenza finanziaria, soggetta a rigorosa condizionalità, a favore di singoli Stati membri. Ciò sia nel caso di Paesi soggetti a particolari tensioni finanziarie che in risposta a shock esogeni più generali.

È proprio l’art. 136 del TFUE emendato che, con il nuovo comma 3 introduce il Mes e le sue “condizionalità”: «Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità».

È dunque un organismo intergovernativo, che ha sede in Lussemburgo e che “raccoglie” l’eredità delle sue “prime versioni”, il precedente ESF e il FESF (fondo europeo di stabilità finanziaria), attivati già nel 2010. Due risposte della Ue, inizialmente di carattere “temporanee” e poi valutate come necessarie a regime, nate per reazione alla crisi del 2007/2008 e, successivamente, a quella del 2011 dei paesi “periferici” dell’eurozona. Finora sono già stati effettuati diversi interventi, per totali 295 miliardi di euro a favore di Cipro, Irlanda, Grecia (in tre fasi), Portogallo e Spagna (solo sul sistema bancario).

La governance del fondo

Il cosiddetto fondo Salva-Stati è partecipato da tutti i Paesi dell’eurozona e ha una governance abbastanza complessa. Un “board of Governors”, formato dai singoli ministri economici dei singoli stati dell’eurozona, con funzioni di indirizzo; un “board of Directors”, formato da funzionari scelti per ciascun Paese dal rispettivo ministro dell’economia; un “direttore generale” con poteri di gestione dei soli affari correnti (prima era il tedesco Klaus Regling, oggi il lussemburghese Pierre Gramegna); infine, alle riunioni partecipano anche il presidente della Bce (prima l’italiano Mario Draghi, ora la francese Christine Lagarde) e il Commissario Ue agli affari economici (attualmente l’italiano Paolo Gentiloni). È, pertanto, un “ente intergovernativo, che agisce come organo tecnico a guida politica”.

Le decisioni, per statuto, vengono prese secondo la regola del “comune accordo” (unanimità), salvo quelle di “estrema urgenza” che devono rispettare la maggioranza qualificata dell’85% e la nomina del direttore generale che viene presa con la maggioranza qualificata dell’80%. Le percentuali di voto si calcolano proporzionalmente alla quota di capitale sottoscritta, che a sua volta è calcolata in funzione della dimensione delle singole economie dei Paesi membri.

Essendo l’Italia il terzo contributore, con circa il 18% del capitale sottoscritto, siamo tra i tre paesi (gli altri sono la Germania, con il 27%, e la Francia, con il 20%) con diritto di veto nelle decisioni di estrema urgenza. Il che, oltre alla regola dell’unanimità sulle questioni generali, ci mette in una condizione di privilegio nella “fairness” dei suoi meccanismi decisori.

Come funziona il MES (a oggi)

La disponibilità teorica è di circa 700 miliardi di euro (704, per la precisione) sottoscritti dagli Stati membri (circa poco meno di 125, l’Italia), di cui versati ad oggi 80 (poco più di 14 l’Italia). Il Mes, ovviamente, può ricorrere (come in effetti ha fatto) sia ad emissioni di titoli propri che a cofinanziamenti con il Fondo monetario internazionale (Fmi) che insieme alla Banca centrale europea (Bce) e alla Commissione (Mes) forma la cosiddetta “Trojka”. L’attuale rating è “AAA, stable”, per Standard & Poors e Fitch, mentre è “Aa1, stable” per Moody’s.

Le forme tecniche di intervento, sin qui in vigore, sono sostanzialmente prestiti diretti a uno Stato membro per

  • la ricapitalizzazione di singole banche dell’eurozona
  • (ii) l’acquisto di titoli sovrani dei Paesi membri.

Le due forme tecniche di prestiti agli Stati membri, invece, sono:

(a) le linee di credito PCCL (precutionary conditioned credit line), ad accesso condizionato all’essere in regola con il patto di stabilità (ad oggi ancora sospeso, a seguito degli interventi attuati dalla UE per reagire agli effetti della crisi epidemiologica, ed in corso di ridefinizione delle regole attuative);

(b) le linee ECCL (enhanced conditions credit line), ad accesso non condizionato ma con l’impegno ad attuare misure correttive di bilancio nel tempo.

Tipicamente, queste misure correttive sono afferenti ad ipotesi di consolidamento fiscale, di introduzione di riforme strutturali e di riforme del settore finanziario, di volta in volta secondo le necessità che vengono individuate in un apposito accordo iniziale (“memorandum of understanding”)e rispecchiano la previsione (del già citato articolo 136 del TFUE) di “rigorosa condizionalità”. E, d’altronde, in via generale appare oggettivamente pacifico che un “creditore plurale” (un Ente che deve garantire più soggetti sottoscrittori) ponga delle “condizioni” (condivise e accettate dal “prenditore”) sull’utilizzo dei fondi prestati e/o delle condizioni di rimborso e/o delle limitazioni ad azioni future che potrebbero mettere in pericolo il rimborso.

L’introduzione della linea “Pandemica”

Va detto che il coordinamento delle decisioni europee, di fronte all’emergenza data dalla pandemia e, ancor più, dei suoi effetti economici conseguenti ai lockdown diffusi nei vari Paesi, ha avuto una storia travagliata, essendosi creata una contrapposizione fra i Paesi più “rigoristi”, che sostenevano l’utilizzo del Mes, e i Paesi più “solidali” che sostenevano lo strumento degli eurobond (“generalisti” o “di scopo”), che peraltro avevano un difetto tecnico, in un momento dove si doveva intervenire velocemente, dovuto alla tempistica “burocraticamente lunga” della loro emissione. L’Italia, in particolare, si opponeva in quel momento all’utilizzo del Mes per via dei suoi requisiti di “condizionalità” sulle politiche economiche successive.

L’ampliamento degli interventi del Mes a finalità sanitarie, alla fine, prevalse e venne ipotizzato, in via generale, a sostegno di un Paese membro nei casi di “shock asimmetrici” (di un singolo Paese) ovvero per uno o più Paesi nei casi di “shock esogeni” (come era il caso della crisi pandemica). Ecco quindi che, oltre alle previsioni del Recovery Fund (programma Next Generation UE), del Sure e dell’allocazione dei fondi Bei (Banca europea per gli investimentio) per le Pmi europee, in sede di eurogruppo venne ipotizzata una specifica linea di credito legata alle necessità finanziarie dovute alla copertura delle spese sanitarie emergenziali.

L’utilizzo dell’Esm Pandemic Crisis Support, previsto dall’accordo, era ovviamente una facoltà per ciascun Paese membro ed avrebbe avuto il vantaggio di utilizzare, a differenza di altri strumenti, risorse finanziarie già esistenti (le somme, ove richieste, potranno essere disponibili immediatamente in tranches mensili del 15% dell’importo assegnato a ciascun Paese richiedente). Ne viene previsto uno stanziamento complessivo di 240 miliardi di euro, senza condizionalità particolari di bilancio aggiuntive, destinato unicamente al sostegno della spesa pubblica sanitaria e di cura e prevenzione, per un importo stimato (modificabile nel tempo) pari al 2% del Pil di ciascun Paese membro che ne richieda l’utilizzo (per l’Italia, sarebbero disponibili circa 35/36 miliardi di euro).

 

Come cambierà il MES (se verrà ratificato dall’Italia)

Già nel corso del 2018 e del 2019, i Paesi membri (nelle riunioni dell’Eurogruppo, che è pressocché la medesima composizione del “Board of Governors”) avevano individuato alcune modifiche all’impianto del Mes stesso, a seguito di una proposta della (vecchia) Commissione, poi non andata a buon fine. La proposta, che fu poi scartata, era quella di trasformare il Mes in un vero e proprio Fondo autonomo (una sorta di Fondo monetario europeo, al pari del Fondo monetario internazionale). Le modifiche invece poi discusse formalmente in sede di Eurogruppo, mantenendo la struttura giuridica preesistente del Mes, attenevano a quattro profili sostanziali, secondo una logica “a pacchetto” (MES + Unione Bancaria): (

a) la funzione di “backstop” ( “paracadute finale” in caso di crisi bancarie a sostegno del “fondo di risoluzione unico” delle banche);

(b) la funzione di organo tecnico per la Commissione Ue (che resta organo politico deputato) nei casi estremi di ristrutturazione dei debiti sovrani;

(c) la riforma delle CACs (clausole di azione collettiva), cioè dei diritti di voto spettanti agli investitori nella decisione di eventuali ristrutturazioni delle scadenze (“cut off”, “duration”) o dei rimborsi (“haircut”) dei titoli del debito pubblico di un Paese membro, passando da logiche “dual limb” (doppia maggioranza, quantitative e numero di sottoscrittori) a quella “single limb” (unica maggioranza, quantitativa);

(d) l’introduzione di procedure semplificate e/o di non condizionalità successiva per l’accesso di una parte delle linee di credito (le PCCL).

A seguito di tutto ciò le modifiche più rilevanti oggetto della ratifica (ad ora) “mancante”, sono di conseguenza così riassumibili:

  • la linea di intervento PCCL (linea “precauzionale”) diverrebbe basata sulla definizione di specifici parametri generali da rispettare, rendendo non più discrezionale la fissazione delle condizionalità e superando l’attuale memorandum of understanding negoziale preventivo, lasciando così allo Stato membro richiedente la definizione unilaterale di quali interventi adottare per superare le difficoltà (una sorta di “impegno di risultato”);
  • la linea ECCL (quella “rafforzata”) e le altre linee di intervento (quelle sul sistema bancario di uno Stato membro e/o quelle – facoltative – sul suo debito pubblico) resterebbero basate sulla negoziazione ad hoc delle condizionalità da rispettare, da graduare secondo un principio di proporzionalità in ragione dell’intervento attuato e non escludendo l’inclusione di specifiche misure di bilancio da adottare;
  • il ruolo del Mes (e del suo direttore generale) si rafforzerebbe, rispetto ad oggi, affiancando la Commissione Ue nelle valutazioni dei Paesi membri.

 

I punti oggetto di discussione:

Alcune delle paure sul ricorso al Mes vertono sulla “cessione di sovranità” e sull’interpretazione dell’art. 136 del TFUE, spesso ricorrendo all’esempio ultimo della Grecia. In realtà, la dimensione dei tre interventi a favore della Grecia e la particolarità della situazione di partenza (effetti della crisi finanziaria sommata a quella interna e a dati del deficit pubblico greco enormemente falsificati; circostanze che, sommate fra loro, hanno ingenerato un intervento tardivo) la rende un caso non oggettivamente paragonabile a quello verificabile in caso di attivazione da parte dell’Italia. Né, a ben vedere, vi sono evidenze di effetti negativi negli altri interventi (Irlanda, Spagna, Portogallo, Cipro) che, anzi, hanno dato risultati (statistici, le questioni redistributive non dipendono dallo strumento di assistenza finanziaria) più che positivi.

La questione dell’ingerenza (rectius, “rigorosa condizionalità”) è invece riconducibile agli impegni da negoziare con il Memorandum of Understanding, dal quale traggono fondamento giuridico. Ora, è giusto dire che tali “condizionalità” derivano direttamente dal già emendato art. 136 del TFUE, prima ancora che dal Trattato istitutivo del Mes e comunque non dalle attuali modifiche dello stesso Meccanismo in discussione. Invero, occorre chiarire ancora due aspetti, uno giuridico e uno sostanziale. Sotto il profilo giuridico, le critiche sulla sua “estraneità” al corpo legislativo europeo (ente “non democratico”) appaiono infondate. La critica si basava in passato sulla circostanza che la modifica al TFUE sia irregolare in quanto intervenuta con la procedura di consultazione semplice ex art. 48, sesto comma, e non con l’indizione di una conferenza intergovernativa. E che, addirittura, siccome l’articolo 136 recita “[…] istituire un meccanismo di stabilità […]”, questo non integri la costituzione di una società veicolo o di un fondo con personalità giuridica. Sul punto, però è (già) esaustivamente intervenuta la Corte di giustizia europea, con sentenza del 27 novembre 2012, causa C-370/12, pronunciandosi a favore della legittimità di quella modifica e dell’istituzione del Mes.

Sotto il profilo sostanziale, semmai, va detto che erano le “minori condizionalità” approvate per la linea “pandemica” a destare diffidenza, poiché apparivano in contrasto con i regolamenti delle linee ordinarie del Mes e, quindi, con la previsione dello stesso art. 136, ove recita “[…] la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria […] sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. Da qui, gli annunci di una linea “priva” di condizionalità erano apparsi, ad alcuni interpreti e soprattutto ai “Paesi frugali”, incompatibili con i trattati.

Sulla ratifica del “nuovo” MES

È stata sollevata la questione del “rischio stigma”, ovvero della possibilità che, ricorrendo ad un credito privilegiato (come in effetti è il Mes), si dia un segnale negativo ai mercati e che quindi questi chiedano tassi più alti sul debito “ordinario”. È un rischio ampiamente sopravvalutato. Intanto, il costo dell’accesso al Mes viene stimato leggermente inferiore al tasso di emissione di nuovi titoli pubblici. Peraltro, sotto il profilo empirico, anche il Sure (già attivato dall’Italia) e il Recovery fund (Pnrr, per la parte a debito) sono “privilegiati”, ma non si sono però alzate critiche sul ricorso a tali strumenti. Infine, sotto il profilo teorico, come ricordato anche da Guido Tabellini e dagli insegnamenti di Franco Modigliani e Merton Miller, il costo medio del debito resterebbe al massimo invariato, se non per gli scostamenti dei tassi che si verificherebbero a prescindere nel corso del tempo, in funzione del ciclo economico e delle pressioni inflattive esistenti quando – e nel caso, se – si ricorresse ai finanziamenti del Mes.

Ciò ci porta ad affrontare il tema del perché non sia stato chiesto – al di fuori dei casi già richiamati – dagli altri Paesi europei durante la crisi pandemica. Le valutazioni sono molteplici, ma due paiono le più rilevanti. In primo luogo, è proprio il tema del costo finanziario dello strumento, ad essere determinante. Paesi che – a minor stock di debito pubblico in essere – pagano un minor costo sull’indebitamento, si trovano ad avere una minore convenienza, se non addirittura a non averne nessuna, nel ricorrere a questa linea di assistenza finanziaria. In secondo luogo, in un orizzonte temporale futuro, l’adozione o meno delle citate modifiche allo stesso MES (e i tempi di attuazione che si stanno trascinando) condiziona – per chi non ne ha convenienza immediata – la scelta e ha indotto tutti ad essere attendisti in attesa delle evoluzioni annunciate e della valutazione dei nuovi scenari finanziari che si consolideranno, in termini, appunto, di inflazione e tassi di interesse futuri.

E se non venisse ratificato?

In caso di definitiva mancata ratifica da parte dell’Italia, le modifiche non entrerebbero in vigore e resterebbe, cioè, attiva la versione precedente delle regole di ingaggio del Mes. La questione, quindi, non attiene (tecnicamente) al “Mes sì o Mes no”, bensì a “meglio regole vecchie o meglio regole nuove”? e ciò a prescindere dal (diverso) tema del “richiederne l’attivazione o meno”, che resta decisione facoltativa di un singolo Stato membro.

In sintesi

L’utilità tecnica, “a regime”, del Mes sta quindi in due semplici considerazioni. Una è racchiusa nella considerazione (pragmatica) di uno strumento (e non il solo, in ambito europeo) che non è né da “santificare” come risolutivo e nemmeno da “rigettare” come il demonio. L’altra è insita nel principio della co-assicurazione fra Stati – esattamente come sarebbe, peraltro, qualora si addivenisse ad un sistema di emissioni di eurobond generalizzati – ed è la fruizione di una “barriera protettiva” dai rischi finanziari speculativi su un singolo Paese membro. La prevista “potenza di fuoco” fino a 500 miliardi di euro per ciascun intervento è deterrente oggettivamente congruo per attacchi strumentali, poiché l’ipotesi di “ristrutturazione del debito sovrano” resterebbe, di conseguenza, solo su base volontaria (e, quindi, tutta “reindirizzata” alla “credibilità” dei singoli governi di volta in volta in carica). Quest’ultima cosa, fra l’altro, attenuerebbe il peso della spada di Damocle dei giudizi delle agenzie di rating internazionali in tema di “rischio ristrutturazione (del debito)”, che – data la situazione delle nostre finanze pubbliche, di cui siamo i soli colpevoli – in caso di eventuali ulteriori declassamenti (per ragioni di policy di risk management, siamo già sui livelli minimi di rating per essere inseriti nei portafogli di banche e fondi di investimento) – rischierebbero di scatenare automatismi di vendite sui nostri titoli pubblici.

E allora, perché il rinvio della ratifica?

Al di là delle motivazioni formali addotte, le motivazioni del rinvio della ratifica da parte dell’Italia appaiono quindi più orientate ad una “negoziazione” complessiva dei rapporti con l’Ue, mettendo sullo stesso tavolo le modifiche al Mes e le modifiche in discussione sul Patto di Stabilità (e, sottotraccia, il ruolo della Bce). Giusto o sbagliato che sia, è l’utilizzo, cioè, di un potere interdittivo per cercare di ottenere qualcosa di più su altri dossier contestualmente oggetto di revisione. Scelta politica tesa ad ottenere dei risultati migliorativi per il nostro Paese, da un lato, ma rischiosa negli effetti, dall’altro, poiché – qualora non riuscisse la negoziazione – le “vecchie regole” del MES, con “questa” congiuntura economica (inflazione e tassi in rialzo, sommati ai giudizi delle agenzie di rating in arrivo e alle tensioni sulle rate del Pnrr) e magari con ritardi sulle rate dello stesso piano, sarebbero ancora più stringenti per il nostro Paese, qualora si venisse a creare la necessità di accedere al fondo salva-Stati.

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