Il nodo dei rapporti (pessimi) tra Roma e Parigi

Sul piano Mattei per l’Africa Giorgia Meloni si gioca la sua credibilità politica internazionale. L’attuale fase di geopolitica a blocchi contrapposti e le possibili frizioni con i paesi occidentali rischiano di fare il gioco di Cina e Russia. In questo scenario l’Italia non può giocarsela da sola contro i propri partner, ma assieme a loro. Ma su questo aspetto vengono al pettine diversi nodi.

Il ‘Piano Mattei’ è un cantiere, e molto lascia intendere che resterà così per un po’. A Palazzo Chigi è stata da poco incardinata una struttura amministrativa ad hoc piuttosto snella, che ha rapidamente reclutato risorse in varie amministrazioni dello Stato. La guida è stata assegnata al consigliere diplomatico di Giorgia Meloni, l’ambasciatore Fabrizio Saggio, ma una riflessione compiuta sugli obiettivi e sugli strumenti del Piano ancora non si è vista. Riferimenti volanti, allusioni, battute ma poco d’altro. D’altra parte sembra trattarsi di una riflessione strategica di respiro ampio, e la strategia ‘alta’ come noto rappresenta un esercizio insolito per il Belpaese, abituato a vivere sul filo dei tatticismi, talora esasperati, che riflettono esternamente la cronica volatilità – leggi: fragilità – che si registra sul piano interno. Senza contare che, quando Meloni evocò il ‘Piano Mattei’ per la prima volta, meno di due anni fa, il mondo era un luogo molto diverso da quello attuale. Meno hot, per così dire.

C’era già il conflitto russo-ucraino, ma Meloni era ancora in condizione di guardare con relativa calma verso Sud e verso il Medio Oriente, traguardando l’Oceano Indiano. Fin dalle prime battute del suo mandato, Meloni poteva infatti contare, oltre che sui tradizionali rapporti con le monarchie del Golfo, sull’intesa con Narendra Modi, leader del subcontinente indiano nonché, nell’equazione strategica meloniana, tassello di una strategia che, dal Mediterraneo Allargato, abbraccia il Global South.

In compenso, non era ancora montato al calor bianco il conflitto tra Israele e l’Iran (con i suoi vassalli), la cui intensità è oggi giunta a livelli estremi. Al punto che anche due Paesi che tradizionalmente sono stati sponsor dell’Islam politico, la Turchia e il Qatar, hanno optato per un profilo basso. Tutto, pur di non finire nella stessa categoria geopolitica dell’Iran. Che oggi, oltre ad accerchiare Israele, prova a destabilizzare la casa regnante hashemita in Giordania, e il governo di Al Sisi in Egitto. Spingendosi così pericolosamente vicino all’Italia. Cosa resta, oggi, dello spirito di quasi due anni fa?

Un modello virtuoso

Enrico Mattei venne citato nel discorso programmatico di fiducia pronunciato da Meloni alla Camera nell’autunno del 2022, e fece capolino anche nell’intervento di chiusura dei Med Dialogues di Roma, in cui Meloni evocò «un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Ue e nazioni africane». Di Mattei ricorrevano i sessant’anni dalla morte, e il risalto offerto da Meloni alla sua persona fu molto forte. Non poco per un leader politico e capo di Governo, Meloni, che è giovane e si rifà a una tradizione politica diversa da quella del democristiano Mattei. Di certo, poi, c’è che Meloni e i suoi strateghi, evocando la figura-simbolo del fondatore dell’Eni, al tempo stesso celebravano un patriota e segnalavano forte interesse per l’Africa. Meloni non è il primo presidente del Consiglio italiano a ripescare Mattei, che in quanto figura simbolica è già stato a più riprese ‘esportato’ fuori dal suo specifico contesto storico.

Prima di Meloni, per esempio, era stato Bettino Craxi a rilanciarne con forza il ricordo. Craxi, che era nato nel 1934 ed era quasi trentenne alla morte di Mattei, ricordava bene che, sotto la presidenza di Mattei, l’Eni aveva negoziato importanti concessioni petrolifere in Medio Oriente e concluso un importante accordo commerciale con l’Unione Sovietica. Il 5 novembre del 1962, a pochi giorni dalla morte di Mattei, Cyrus Sulzberger notò in un editoriale sul New York Times che «se non altro, l’offensiva petrolifera in Europa dell’Unione Sovietica ha subito un colpo mortale» con la scomparsa di Mattei. Per Craxi, quindi, il recupero di Mattei si prestava non poco a portare acqua al mulino del socialismo tricolore craxiano, con una formula che strizzava l’occhio alla sponda Sud del Mediterraneo e al vasto mondo arabo. Nel recupero di Mattei fatto da Craxi c’era, anche, un guanto di sfida verso il resto dell’Occidente. Quello ‘anglo’, per intenderci.

I nodi al pettine

Sul piano (decisivo) del rapporto con il resto dell’Occidente, l’impostazione di Meloni oggi è molto lontana da quella di Craxi. La prima e più evidente ragione è che Meloni ha scommesso sul posizionamento atlantista tanto del suo Governo quanto del suo stesso partito. E, nell’attuale fase di geopolitica a blocchi contrapposti, le frizioni con partner occidentali finirebbero per fare il gioco di Cina e Russia. Meloni sa che l’Italia non può pensare di giocarsela da sola contro i propri partner, ma assieme a loro. Ma proprio su questo aspetto vengono al pettine diversi nodi.

Il problema più vistoso ha a che fare con la Francia. Enrico Mattei, è quasi inutile ricordarlo, era una bestia nera per i francesi (non solo loro, per il vero). Il nostro finanziava la resistenza algerina, contendeva contratti ai colossi di Stato francesi, combatteva colpo su colpo. Il Piano Mattei, anche solo per quello, ripropone in nuce il tema della concorrenza italo-francese in Africa. Non solo nella fascia maghrebina, ma più a sud. Parecchio più a sud.

Agli excursus storici si aggiungono elementi personalistici. Giovanbattista Fazzolari, una delle menti più fini del giro stretto meloniano, è forse il caso più eclatante. Figlio di diplomatico, ha fatto scuole francesi ed è un misogallo irredento. Anche Meloni, di cui restano agli atti diverse sfuriate contro il franco CFA e il colonialismo francese, non sembra essere da meno. Nella ormai celebre telefonata tra Meloni e i due impostori russi che si fingevano un alto rappresentante africano, Meloni chiese in via confidenziale al finto diplomatico africano se, secondo lui, il golpe in Niger fosse una mossa contro la Francia e aggiungendo che «Il loro punto di vista [dei francesi, ndr] è diverso dal mio. Per questo diciamo loro che dobbiamo evitare situazioni che potrebbero creare più problemi di quelli che già abbiamo». Si tratta di un dietro le quinte che ci consente di intravedere le diffidenze di Meloni rispetto a Parigi.

Il trattato bilaterale del Quirinale

Al netto di qualche schiarita, non vi è dubbio che il rapporto tra Italia e Francia stia attraversando una tra le fasi più difficili degli ultimi anni. Archiviati gli anni dell’idillio Roma-Parigi, quelli cioè con Letta, Renzi, Gentiloni e Draghi a Palazzo Chigi, siamo precipitati in una sorta di età del ferro del bilaterale italo-francese. A Palazzo Chigi c’è una forte diffidenza, se non aperta rivalità, rispetto alle mire di Parigi. A volte c’è del vero, altre volte si tratta di un riflesso provinciale. Ma è soprattutto sull’Africa che esso si manifesta, e dunque è difficile fingere che non esista. A preoccuparsi è il Quirinale, che dà il nome al recente Trattato bilaterale italo-francese ed è il garante costituzionale degli accordi internazionali italiani, e che a un certo punto deve aver letto con incredulità le agenzie che battevano le dichiarazioni di Meloni che si diceva persuasa che il Trattato non fosse in vigore.

Meloni ora è presidente di turno del G7: la macchina dei vertici ministeriali gira a pieni giri, il summit di Borgo Egnazia di metà giugno è dietro l’angolo. È probabile che non abbia né il tempo, né la voglia di incrociare le lame con Emmanuel Macron sull’Africa. Tanto più che il terzo trimestre dell’anno sarà dedicato al reset di una parte della verticale di potere europea (Parlamento e Commissione), e sia Meloni che Macron vogliono prima giocarsi le loro carte. A un certo punto, però, il gong rischia di suonare di nuovo.

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