Nel nostro Paese il mismatch tra domanda e offerta di occupazione resta ampio nonostante gli investimenti del PNRR nel sistema universitario. E la responsabilità non sta solo nel basso numero di laureati in discipline Stem e in un mercato del lavoro rigido. Per invertire la rotta servirebbero più percorsi di studi brevi e professionalizzanti, più risorse per il diritto allo studio, più investimenti in R&S da parte delle aziende. E un profondo ripensamento del tipo di sviluppo economico del nostro Paese.
È opinione abbastanza diffusa che in Italia il rapporto fra università, sistema economico e mercato del lavoro funzioni male e diversi dati sembrano suffragare questa opinione. Ma da che cosa dipende questa specificità italiana e che cosa si può fare per porvi rimedio? Difficile dare risposte esaurienti in poche righe, ma proviamo a focalizzarci su alcuni aspetti di malfunzionamento per poi discutere delle cause.
Partiamo con il dire che rispetto alle altre economie avanzate, l’Italia produce troppo pochi laureati, dottori di ricerca, personale altamente qualificato necessario a progredire lungo la strada di un’economia basata sulla conoscenza. In Italia la quota di 25-34enni in possesso di un titolo di studio terziario nel 2023 era pari al 31%, a fronte di una media del 44% nei Paesi dell’UE. Nonostante un discreto aumento dal 2008 in poi, non si è riusciti a ridurre il divario con il resto dell’Europa. Inoltre, i dati Ocse ci mostrano forti disuguaglianze nel conseguimento della laurea. In Italia, la percentuale di adulti laureati fra i 25 e i 44 anni risulta del 70% se sono figli di genitori laureati, ma scende al 34% se i genitori hanno un titolo di scuola secondaria superiore e precipita al 9% se i genitori hanno un titolo inferiore. Mentre la media dei Paesi Ocse è rispettivamente del 67%, 39% e 23%.
Inoltre i dati Ocse mostrano che i laureati prodotti dal sistema universitario italiano trovano difficoltà di inserimento sul mercato del lavoro assai maggiori che negli altri Paesi europei. La percentuale di laureati fra i 25 e i 34 anni che risulta occupata era del 74% nel 2023, contro una media dei Paesi Ue dell’87%. Vi è stato un buon miglioramento rispetto al 2016, quando la fetta di occupati era solo del 64% (contro l’83% dei Paesi Ue), ma il distacco rispetto agli altri Paesi avanzati resta elevato. Mentre, al tempo stesso, altri dati OCSE confermano quanto emerge dalle periodiche indagini Excelsior sulla domanda delle imprese italiane, che mostrano sistematicamente una carenza di lavoro qualificato in Italia. Siamo quindi di fronte a un mismatch fra domanda e offerta di lavoro altamente qualificato che è andato aggravandosi negli ultimi anni, e che è dovuto in larga misura a un disallineamento tra i percorsi di studio scelti dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro. Ma è un disallineamento solo in parte spiegabile con il basso numero di laureati nelle discipline Stem.
Lauree professionalizzanti assenti
Quali sono le ragioni a cui si possono attribuire questi aspetti di malfunzionamento?
Una prima e decisiva ragione è la quasi totale assenza di un canale di istruzione terziaria professionalizzante, in grado di attrarre gli studenti meno motivati a intraprendere un percorso accademico e più interessati a un rapido inserimento nel mondo del lavoro. Si tratta di una carenza che risale agli anni ’60 e che distingue il nostro sistema di istruzione superiore da quello di tutte le altre economie avanzate. Nel resto d’Europa, la risposta alla ‘massificazione’ dell’università, cioè al forte ampliamento degli accessi all’istruzione superiore iniziato in quel decennio, fu anzitutto quella di creare un canale di istruzione terziaria fortemente professionalizzante, accanto a quello tradizionale accademico per i provenienti da classi sociali che possono permettersi di non considerare prioritario un rapido inserimento nel mercato del lavoro. In Francia e in Spagna questo ruolo venne affidato a “cicli brevi” (solitamente biennali) istituiti all’interno del sistema universitario, mentre in diversi Paesi dell’Europa del nord (Germania, Olanda, Svizzera, Austria, Svezia, Finlandia) si affermò un sistema di istruzione superiore formalmente “binario”, per cui accanto alle università vennero creati istituti paralleli a stretto contatto con il mondo del lavoro, capaci quindi di recepire le esigenze di quanti vogliono conseguire un titolo di alto livello ma fuori dai tradizionali percorsi accademici. Invece in Italia si mantenne un canale di accesso unico. Ma la pressoché totale assenza di percorsi di studio brevi e professionalizzanti riduce l’attrattività per gli studenti con percorsi di studio tecnico-professionali o già impegnati in attività lavorative e riduce la probabilità di concludere gli studi per gli studenti con percorsi scolastici più deboli. Negli ultimi anni qualcosa si è mosso in questa direzione con l’istituzione degli Its (e poi con i progetti del Pnrr che li hanno trasformati in Its Academy) e, in via sperimentale, di alcune ‘lauree professionalizzanti’, cioè corsi di studio triennali che vedono operare in sinergia gli atenei e gli ordini professionali, ma siamo ancora lontanissimi dall’avere un percorso terziario alternativo a quello universitario numericamente consistente.
Poche risorse per il diritto allo studio
Ma questa non è l’unica ragione dei malfunzionamenti indicati all’inizio. Quanto meno nel determinare il basso numero di laureati, una responsabilità rilevante è l’inadeguatezza delle risorse destinate al diritto allo studio, che fa sì che chi proviene da famiglie più disagiate non si iscrive all’università, oppure abbandona gli studi, o deve cercare di integrare studio e lavoro ritardando il conseguimento del titolo. Nell’anno accademico 2018-2019 la percentuale di studenti beneficiari di una borsa di studio sul totale degli iscritti a corsi di primo livello nel nostro Paese era pari a un misero 12%, a fronte del 22% in Germania, del 28% in Spagna e del 32,5% in Francia. Inoltre il numero di posti letto nelle residenze universitarie nel 2019 era di soli 51 mila, a fronte dei 175 mila della Francia e dei 194 mila della Germania. Anche qui, il Pnrr è intervenuto con fondi consistenti, ma ciononostante del tutto insufficienti a colmare il divario con gli altri paesi europei.
Più investimenti in R&S
Fin qui abbiamo visto che cosa non funziona dal lato dell’offerta formativa. Ma, per capire il malfunzionamento del rapporto fra università, sistema economico e mercato del lavoro, bisogna considerare anche le cause che attengono alla domanda da parte delle imprese e dei datori di lavoro in generale. Il punto è che in Italia il sistema delle imprese investe molto poco in R&S perché si affida a meccanismi di innovazione di prodotto e di processo informali e incrementali, che potevano rappresentare un fattore di competitività sino alla metà degli anni ’90 ma che oggi risultano essere sempre più inadeguati per competere a livello internazionale. Il basso investimento in R&S è collegato al tipo di struttura produttiva italiana, caratterizzata da imprese piccole e medie che spesso non hanno risorse proprie per fare investimenti in R&S; un tipo di impresa tipicamente poco propensa a investire in strutture di laboratorio e in generale a spendere in attività di esplorazione sulle frontiere tecnologiche. Infatti, le piccole imprese hanno meno probabilità di disporre di risorse interne per sostenere i rischi e i costi di progetti innovativi e possono anche mancare della capacità di assorbire le nuove tecnologie. Il risultato è che, da una parte, un gruppo di imprese italiane ad alta produttività (generalmente di dimensioni medio-grandi) fa fatica a trovare le competenze di alto livello di cui avrebbe bisogno, specialmente nel settore dell’elettronica, software, informatica, ingegneria e nuove tecnologie digitali. Dall’altra parte, un vasto numero di imprese di piccole o piccolissime dimensioni, a conduzione familiare, tradizionali e poco innovative ha una domanda di competenze estremamente bassa.
Su ciò che non funziona dal lato dell’offerta formativa (mancanza di percorsi professionalizzanti e debolezza del diritto dello studio) il Pnrr ha cercato di intervenire con fondi e riforme, ma per affrontare il problema dal lato della domanda occorrerebbe molto di più: un profondo ripensamento del tipo di sviluppo economico del nostro Paese, nella direzione di quella knowledge-based economy proposta come obiettivo per le economie europee dall’agenda di Lisbona oltre 20 anni fa, nella quale università e ricerca svolgono un ruolo cruciale.