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Non sempre bello è sostenibile

Il rischio green washing è presente anche in architettura. Per evitarlo ci vorrebbe più equilibrio tra forma e funzione. Ciò significa abbandonare o depotenziare il concetto di international style e tornare a una sorta di localismo  rispetto all’uso delle risorse disponibili, che può portare a risultati tipici e originali molto più efficaci in termini di sostenibilità e, infine, più belli.

Da quando la parola sostenibilità è entrata nel linguaggio comune, a tratti anche abusata, una delle domande ricorrenti è quanto ciò che è sostenibile possa anche rispondere ai canoni della bellezza. È molto simile al dubbio amletico che riguarda l’essere belli e l’essere sani che, come sappiamo, sono concetti non sempre coincidenti.

Proviamo ad articolare un ragionamento sul tema perchè uno dei freni all’affermazione della cultura della sostenibilità è stato fino a ora proprio il fatto che viene vista come qualcosa per addetti ai lavori, come un insieme di  tecniche da applicare agli ambiti del vivere civile, dalla produzione di beni all’uso delle risorse, come un argomento da salotti radical chic dove gruppi di intellettuali parlano di decrescita e di limiti allo sviluppo con parole che per i più risultano incomprensibili e slegate dalla realtà.

Il passo che deve essere fatto, invece, è uno scarto culturale che possa rendere la sostenibilità più pop, comprensibile dalle masse che possano aderirvi non “per legge”, ma “per moda”. In altre parole se sostenibile diventasse cool, se gli influencer se ne occupassero seriamente, se si riuscisse a fare della sostenibilità un fenomeno della cui adesione si potesse fare sfoggio, come una sorta di status symbol, sicuramente avrebbe una maggiore diffusione, si insinuerebbe in maniera capillare nel tessuto sociale e culturale del Paese. Se cioè la sostenibilità fosse anche bella sarebbe più diffusa nella società.

Il rischio green washing

Questo però nasconde il rischio green washing. Un fenomeno a cui stiamo già assistendo, con operazioni di marketing green dietro al quale non sempre troviamo una “sostanza” ecologica vera.

SI tratta spesso di soluzioni di facciata, di slogan e di sostituzione di alcuni materiali con altri meno impattanti ma senza una reale profonda convinzione verso una transizione ecologica che deve invece basarsi su un radicale e rapido cambio di paradigma. Un esempio per tutti: le vernici all’acqua definite ecologiche. È vero che usare come solvente l’acqua invece di un prodotto derivato da idrocarburi ha un impatto minore sull’ambiente, ma la presenza di acqua impone l’uso di funghicidi che sono nuovamente di sintesi chimica. Le vernici veramente ecologiche hanno come solvente il terpene di agrumi che, oltre ad avere un basso impatto sull’ambiente, non è dannoso per la salute umana. Quindi definire ecologica una vernice all’acqua è un po’ forzato ma è pratica consolidata.

Più equlibrio forma-funzione

Una strada che potrebbe funzionare nella ricerca del bello e sostenibile è quella di tendere all’equlibrio forma-funzione dove, in questo caso, l’aspetto funzionale è quello della sostenibilità.

Gli esempi in questo senso sono innumerevoli e vanno dal design, con Vespa e Cinquecento, all’architettura spontanea, con i trulli, i dammusi di Pantelleria, le case coloniche … SI tratta di manufatti dell’uomo in cui la forma è originata dal soddisfacimento delle esigenze funzionali che, tra l’altro, sono a loro volta in equilibrio con gli aspetti storici, culturali, economici e sociali del contesto territoriale in cui nascono.

Ancora due esempi di elementi belli e sostenibili, per una migliore comprensione.

L’elemento architettonico del bow-window, tipico delle aree con climi freddi e poca presenza di sole, che serve proprio a captare il più possibile la radiazione solare, soprattutto in inverno, grazie al volume vetrato in aggetto. Questo funziona molto bene quando il sole è basso in inverno, mentre d’estate, quando il sole è alto sull’orizzonte, la radiazione viene schermata dal tetto che non è trasparente. (vedi foto)

Altro esempio la Mashrabiya, quel volume in aggetto rispetto alla facciata, come il bow-window appena descritto, ma con una funzione molto diversa. Quella di raffrescare l’ambiente interno grazie alla riduzione di sezione degli spazi attraversati dall’aria che, per effetto fluidodinamico, aumenta la velocità. Questo genera una corrente d’aria che rimuove il calore latente (l’umidità in ambiente) e riduce la percezione di caldo (vedi foto).

In entrambi i casi citati c’è una corrispondenza con i costumi sociali dei popoli in cui si sono affermati. Nel caso dei popoli nordici grandi superfici vetrate e assenza di tendaggi e schermature per prendere più luce e calore possibile hanno reso molto aperto e “trasparente” un popolo che ha assunto costumi sociali di grande libertà.

Nel caso dei popoli del Nord Africa e Medio Oriente la superficie trattata come una sorta di grata ricorda la privacy estrema del burqua e consente a chi vive in casa di vedere fuori senza essere visto.

Solo alcuni esempi per sottolineare che il concetto di equilibrio forma-funzione, che nei casi sopracitati, trattandosi di elementi di architettura bioclimatica, ha anche un valore in termini di sostenibilità.

Insomma, per rendere anche bello ciò che è sostenibile, è necessario uno studio approfondito delle istanze che vada oltre i criteri basilari di bisogno, prezzo, rapporto costo/beneficio… ma prenda in considerazione anche aspetti legati all’identità, alla storia, alla tradizione, al clima, al tessuto sociale, dei contesti territoriali in cui si opera e in cui il manufatto nasce. In altre parole è necessario abbandonare o depotenziare il concetto di international style e tornare a una sorta di localismo, di regionalismo rispetto all’uso delle risorse disponibili, che può portare a risultati tipici e originali molto più efficaci anche in termini di sostenibilità e… infine più belli.

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