La pace passa dalla guerra sulle terre rare. I 17 elementi chimici da cui dipende lo sviluppo industriale mondiale dei prossimi anni sono al centro di una contesa senza confini tra Cina, Usa, Europa e Russia. Così le terre rare sono diventate il prezzo da pagare per ristabilire l’equilibrio geopolitico nel nuovo scacchiere internazionale
di Giovanni Francavilla
Le speranze di pace in Ucraina, l’alleanza tra Washington e Mosca, la guerra dei dazi sono appesi a 17 elementi chimici da cui dipende lo sviluppo industriale mondiale dei prossimi anni. Nella tavola periodica hanno nomi piuttosto bislacchi: Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio, Lutezio, Ittrio, Promezio e Scandio; per tutto il resto del mondo, sono le cosiddette terre rare: materie prime critiche essenziali per l’elettronica, la tecnologia digitale, la petrolchimica, l’industria bellica, l’automotive, l’aerospaziale e la medicina. Balzate oggi prepotentemente alla ribalta dell’opinione pubblica, le terre rare sono diventate il prezzo da pagare per ristabilire l’equilibrio geopolitico nel nuovo scacchiere internazionale. Perché?
La Banca Mondiale la domanda di questi elementi è in forte espansione e tenderà ad aumentare ulteriormente nei prossimi anni. Le previsioni indicano un aumento rispettivamente di 4,5 volte rispetto alla richiesta attuale entro il 2030 e di 5,5 volte entro il 2050. Di conseguenza è in salita anche il loro valore di mercato, che stando alle previsioni di Markets and Markets, una delle più grandi società di ricerche di mercato al mondo, passerà dai 5,3 miliardi di dollari del 2021 ai 9,6 miliardi di dollari entro il 2026. Altre stime indicano un mercato globale che oggi vale 11 miliardi e che nel 2031 sfiorerà i 22 miliardi di dollari.
Il dominio della Cina
Un terzo delle riserve mondiali di terre rare si concentra in Cina, leader assoluto del mercato con 240 mila tonnellate di materiale prodotte che controlla circa il 90% della produzione mondiale. Seguono Sud Africa, Congo, Stati Uniti e Australia. Negli ultimi anni Pechino si è mossa in modo tattico, acquisendo diritti esclusivi di estrazione in Africa in cambio di promesse per lo sviluppo e la costruzione di infrastrutture: ha siglato accordi nella Repubblica Democratica del Congo, in Kenya ma anche in Mozambico, Madagascar in Guinea e in Malawi dove estrae minerali che poi vengono processati nelle strutture nazionali. Quello del Dragone è, quindi, di fatto un monopolio destinato a durare nel tempo e che, proprio per questo motivo, ha messo in allarme l’Europa e, soprattutto, gli Stati Uniti.
In Europa l’approvvigionamento di materie prime resta una delle questioni più spinose non solo perché al momento il 95% delle terre rare che utilizza l’industria europea viene dalla Cina, ma anche perché non sembrano esserci alternative valide per centrare gli obiettivi della transizione energetica e digitale. Nel marzo del 2024 la Commissione europea ha adottato il Critical Raw Materials Act, la proposta di legislazione Ue sulle materie prime critiche. Una strategia complessiva con una serie di azioni sul piano interno e delle relazioni internazionali, per assicurare un approvvigionamento “sicuro, diversificato e sostenibile” alle materie prime necessarie per la transizione digitale e verde, in particolare per l’industria a emissioni zero, l’industria digitale, il settore aerospaziale e quello della difesa.
L’Europa non sta a guardare
Nei prossimi cinque anni l’Unione europea dovrà essere in grado di mettere in piedi un sistema capace di estrarre almeno il 10% del proprio consumo annuale di materie prime critiche, di lavorarne almeno il 40% e di riciclarne almeno il 15%. Operazioni che verranno finanziate con i fondi del Global gateway, la risposta europea alla Belt and road initiative della Cina, per lo sviluppo di progetti di estrazione in paesi terzi. A cominciare dall’Ucraina. Già nel 2021, prima ancora dell’invasione russa, la Commissione europea aveva siglato un accordo di partenariato strategico con Kiev per l’estrazione, la raffinazione e il riciclo dei materiali critici. Intesa che ora viene rilanciata dalla proposta di accordo presentata dal commissario europeo per la Strategia industriale, Stéphane Séjourné, in occasione della visita dei vertici Ue a Kiev nel terzo anniversario della guerra.
L’accordo fra Trump e Zelensky
Ancor più aggressiva la strategia messa in campo da dal presidente americano Donald Trump che, dopo aver annunciato di voler comprare la Groenlandia, sembra aver raggiunto un accordo – è notizia dell’ultim’ora – con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, sulla “definizione delle regole e delle condizioni del Fondo di investimento per la ricostruzione dell’Ucraina”. Dopo settimane di forti tensioni, l’intesa garantirebbe agli Stati Uniti lo sfruttamento i diritti minerari sulle terre rare in cambio di aiuti finanziari (si parla di 500 miliardi di dollari) per ripagare il sostegno militare concesso dallo scoppio della guerra (una somma che Trump ha quantificato in 300 miliardi di dollari) e per la ricostruzione postbellica del Paese. Se l’accordo andrà in porto, Trump potrà mettere le mani su circa 2,6 miliardi di tonnellate di riserve di terre rare (per un valore stimato di circa 350 miliardi di dollari), concentrare prevalentemente nella regione del Donbass, attualmente occupata dalla Russia.
L’operazione consentirebbe agli Stati Uniti di azzerare i costi legati alle importazioni di terre rare (190 milioni di dollari solo nel 2023) e di intensificare l’estrazione dei metalli rari dal sottosuolo americano, che nel 2024 ha raggiunto una produzione di 43 mila tonnellate di terre rare. Nel 2020 il Pentagono ha finanziato la compagnia privata MP Materials, che controlla la miniera californiana Mountain Pass, e ha stretto un memorandum d’intesa tra la compagnia australiana Lynas Corporation e la società texana Blue Line Corporation, per avviare la costruzione di un impianto di trattamento delle terre rare in Texas.
Le contromosse di Putin
La Russia non sta certo a guardare e, con le trattative di pace sull’Ucraina tra Vladimir Putin e Trump, punta a un accordo di cooperazione con Gli Stati Uniti sullo sfruttamento delle terre rare in Russia e nell’Ucraina occupata. Per ora, tuttavia, non si va oltre le buone intenzioni. I giacimenti russi hanno una capacità produttiva di circa 2.600 tonnellate di materie critiche rare e già nel 2020 il Cremlino aveva annunciato un piano di investimenti di circa 1,5 miliardi di dollari che permetterebbe a Putin di incrementare la produzione fino al 10% entro il 2030, cosa che gli consentirebbe di divenire il secondo produttore mondiale di terre rare. Al netto di imprevisti, ovviamente.