Il destino del continente nero si gioca sull’agricoltura. In una regione dove 282 milioni di persone soffrono la fame, ci sono oltre 400 milioni di ettari di terra, ma soltanto il 10% viene coltivata, con tecniche obsolete. Da anni la Fao e la Banca mondiale hanno avviato progetti per sviluppare le coltivazioni e l’occupazione. E ora anche l’Italia vuole fare la sua parte
La terra e la fame. Il continente africano è una somma infinita di contraddizioni. Qui, da sempre, le immense risorse naturali e le sconfinate aree rurali cozzano con un’agricoltura di sussistenza, che non riesce a sfamare l’intera popolazione, in un groviglio di paradossi economici che si intrecciano in un pesante deficit commerciale dell’agroalimentare, condizionato dall’esportazione di materie prime grezze; nell’impennata dei prezzi dei beni alimentari cresciuti nel 2022 del 30-40% in più rispetto al resto del mondo, in proporzione al Pil pro-capite; in una filiera agricola produttiva e distributiva che accresce sprechi alimentari sufficienti a nutrire 350 milioni di persone all’anno, ma costretta a importare derrate alimentari per 35 miliardi di dollari ogni anno, una cifra che secondo le stime della Banca africana di sviluppo (Afdb) potrebbe raggiungere i 100 miliardi di dollari nel 2030.
L’altra faccia della medaglia è dura come la fame. Nella regione sub-sahariana un bambino muore di fame ogni 30 secondi e 282 milioni di persone sono denutrite, come denunciano i dati del Rapporto 2023 della Fao sullo “stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo”, sottolineando come nel 2022 la denutrizione sia cresciuta 19,7% in tutte le sotto-regioni del continente, colpendo 11 milioni di persone in più rispetto all’anno precedente e quasi 57 milioni in più dallo scoppio della pandemia. Qui la fame fa a pugni con la terra.
«L’Africa nutrirà il resto del mondo», diceva il presidente della Banca africana di sviluppo, Akinwumi Adesina, in un suo intervento davanti alla Fao nel lontano agosto del 2018: una lucida utopia, che affonda le sue radici nell’esplosione demografica che investirà il pianeta (si stima che la popolazione mondiale raggiungerà nel 2050 i 9,8 miliardi e oltre la metà interesserà l’Africa sub-sahariana, che arriverà a circa 2,3 miliardi di persone) e nelle potenzialità ancora inespresse di una terra fertile che aspetta solo di essere coltivata. In Africa si trova infatti il 65% delle terre arabili nel mondo finora non coltivate, un’immensa area agricola di oltre 400 milioni di ettari di terra, ma soltanto il 10% è coltivata. Un potenziale enorme che, secondo l’Afdb, potrebbe far crescere il mercato alimentare e agricolo dell’Africa dagli attuali 280 miliardi di dollari all’anno, ai 1.000 miliardi di dollari entro il 2030.
Una ricchezza da coltivare
Oggi l’agricoltura sostiene oltre il 50% della popolazione africana e rappresenta il 35% del Pil regionale, raggiungendo il 50-60% in alcuni Paesi. E il paradosso è che quella “terra” potrebbe fruttare fino a sette volte di più. In base ad alcune stime dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, infatti, la superficie coltivabile africana avrebbe il potenziale per essere ampliata del 150-700% fino a raggiungere i 300 milioni di ettari. Ma la strada è ancora molto lunga e piena di ostacoli.
Al di là dei conflitti che ancora oggi insanguinano il continente africano (dal Burkina Faso al Mali, dal Sudan alla Somalia, dal Congo al Ruanda), che fino a oggi hanno lasciato sul campo oltre 43 mila morti, e del cambiamento climatico che minaccia di far crollare l’80% dei raccolti agricoli in otto Paesi entro il 2050, come riporta il Fondo internazionale delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo, l’Africa si trova a fronteggiare un profondo cambiamento economico e sociale dagli esiti tanto incerti quanto rovinosi.
Se da una parte, il caotico fenomeno dell’urbanizzazione si muove di pari passo con lo spopolamento delle zone rurali; dall’altra parte il settore primario africano sembra essersi fermato a qualche secolo indietro. Nonostante il 60% dei lavoratori africani sia impiegato nell’agricoltura, la stragrande maggioranza è formata da piccoli nuclei familiari che riescono a soddisfare a malapena i loro fabbisogni alimentari. Un’agricoltura di sussistenza che si basa su tecniche obsolete e poco efficienti e dove la dimensione media per azienda agricola non supera 1,3 ettari.
«In Africa la popolazione cresce molto più velocemente della produzione agricola, di conseguenza, ci troviamo in una situazione in cui l’Africa ha bisogno di importare sempre più cibo. Ma, questo, è diventato molto difficile a causa degli squilibri delle valute e della guerra in Ucraina», ha detto Matthias Berninger, responsabile relazioni pubbliche, scienza, sostenibilità di Bayer durante la Tavola rotonda degli agricoltori africani, ospitata nell’ottobre 2023 dalla Pontificia Accademia delle Scienze in Città del Vaticano. «Per evitare che le comunità africane vengano ancora più destabilizzate, dobbiamo garantire il successo agli agricoltori africani. E, l’unico modo è riuscire a consentire l’accesso a quell’innovazione che noi diamo per scontata in Europa, in Sud America e in Nord America».
Uno sviluppo agricolo che però deve essere sostenibile sia sul fronte socioeconomico sia su quello ambientale. Per questo il primo step da compiere deve essere quello di garantire una adeguata formazione a tutti i soggetti interessati, con particolare attenzione alle realtà di piccola scala, offrendo opportunità di lavoro, crescita umana e professionale alle persone e alle realtà locali.
Banca Mondiale e Fao attive da tempo
È un po’ quello che da qualche lustro la Banca mondiale e la Fao stanno cercando di fare, con numerosi progetti avviati negli anni per sviluppare il settore agricolo e garantire lavoro e cibo alla popolazione locale. Un esempio viene dall’iniziativa Fao per monitorare l’impatto dei conflitti sull’agricoltura in modo da poter sostenere un’equa distribuzione dell’acqua grazie allo strumento di telerilevamento della produttività idrica in agricoltura (WaPOR).
Utilizzato in Sudan dopo lo scoppio del conflitto nel 2023, il WaPOR ha consentito di rilevare un calo del 51% delle aree coltivate rispetto agli anni precedenti a causa delle interruzioni dei mercati e dei meccanismi di finanziamento che consentono ai contadini di acquistare i fattori di produzione agricoli. Dopo una prima verifica la Fao ha pianificato una distribuzione di sementi di alta qualità durante il mese di agosto, permettendo così a un maggior numero di agricoltori di piantare in tempo per la stagione vegetativa.
Lo stesso è accaduto in Mali, mentre in Nigeria l’Organizzazione delle Nazioni Unite per la l’alimentazione e l’agricoltura ha formato alcune donne sfollate nel nord-est del paese per elaborare e promuovere il “Tom Brown”, una polvere altamente nutriente utilizzata per il porridge composta da ingredienti di provenienza locale come pesce, miglio, soia e arachidi. Inoltre sono stati costruiti 13 centri di lavorazione del pesce in varie località di Borno, Adamawa e Yobe gestiti oggi da 350 donne precedentemente formate.
Nella stessa direzione si muovono i progetti finanziati dalla Banca Mondiale in Africa, che nel 2022 ha messo sul tavolo 315 milioni di dollari per rafforzare la resilienza dei sistemi alimentari in tutta l’Africa occidentale. Nell’area interessata un numero crescente di operatori del sistema agro alimentare ha potuto così accedere ai servizi di consulenza idraulica e agrometeorologica e all’uso di tecnologie agricole intelligenti dal punto di vista climatico. Inoltre, circa 12 mila ettari di terreno hanno beneficiato di pratiche di gestione integrata del paesaggio e le produzioni commerciali intraregionali in catene di valore selezionate sono aumentate del 30%. Ma i progetti di Banca Mondiale e Fao sono tantissimi, qui, per questioni di spazio, ne abbiamo citati solo alcuni.
Del resto non è un mistero che il continente dall’altra parte del Mediterraneo sia la chiave di volta per vincere la sfida globale della food security. E in questo campo la Cina docet. Da oltre 15 anni la Repubblica popolare cinese di Xi Jinping ha investito oltre 153 miliardi di dollari in infrastrutture, energia, trasporti e telecomunicazioni, diventando il primo partner commerciale dell’Africa. Nel 2021 l’interscambio sino-africano ha toccato quota 254,3 miliardi di dollari, con la bilancia che pende però dalla parte del gigante asiatico.
Ma da due anni a questa parte, la strategia cinese in Africa ha fatto un salto di qualità, spostando i suoi investimenti dalla realizzazione di grandi infrastrutture al settore agroindustriale. Nel mirino di Pechino ci sono i 200 milioni di ettari di terre arabili libere (circa sette volte la superficie dell’Italia), una grande estensione di terreno da lavorare possibilmente evitando il landgrabbing, ovvero l’accaparramento di terre, approccio che spesso ha caratterizzato l’operato delle grandi multinazionali occidentali, interessate ad acquisire enormi estensioni di terreno da utilizzare per la coltivazione intensiva di prodotti da esportare.
L’Italia scende in campo
Il settore dell’agricoltura insieme a istruzione, salute, acqua ed energia, è uno dei pilastri su cui intende svilupparsi il Piano Mattei. Diversi i progetti sulla carta tra i quali il monitoraggio sull’agricoltura in Algeria; la costruzione di un centro agroalimentare in Mozambico e di un’area di produzione di cereali e legumi in Egitto; lo sviluppo di alcuni progetti idrici in Tunisia, Congo ed Etiopia e la realizzazione di una filiera di biocarburanti in Kenya.
Con il piano Mattei anche l’Italia scende in campo per sostenere lo sviluppo agricolo locale. Una grande sfida ancora tutta da organizzare con il coinvolgimento di Coldiretti, con BF, Filiera Italia e Cai (Consorzi Agrari d’Italia). La mission è quella di mettere l’esperienza e le competenze del made in Italy agroalimentare a disposizione dello sviluppo e della crescita del continente africano. Il progetto, presentato in occasione dell’apertura del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, organizzato lo scorso novembre in collaborazione con The European House – Ambrosetti, prevede la coltivazione di oltre 40mila ettari a frumento, soia, mais, riso, banane, ortaggi e frutta di vario tipo tra Algeria, Egitto, Angola e Ghana. Un piano che porterà alla creazione di posti di lavoro, fornitura di beni e servizi, sviluppo di agroenergie da fonti rinnovabili e trasmissione di know how e tecnologie per la produzione locale e lo sviluppo di nuove reti di vendita con i farmers market per fornire un’alternativa concreta al fenomeno delle migrazioni, sviluppando le economie locali e potenziando la cooperazione.
Obiettivo ultimo: promuovere un’agricoltura sostenibile e responsabile in Africa, aumentare la sicurezza alimentare principale causa di instabilità, generare entro il prossimo biennio un indotto di migliaia di posti di lavoro capace di reggersi su filiere che partono dall’agricoltura. Il tutto per dare un’alternativa concreta al fenomeno delle migrazioni, evitando il depauperamento sociale, economico e ambientale dei territori locali. Un programma intenso che si inserisce in uno scenario di contatti e scambi a livello internazionale con la collaborazione del Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale e del Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare per accordi destinati alla fornitura di macchinari, tecnologia, sementi e conoscenze ma anche prodotti alimentari di base.
Sostenibilità nel mirino
Finalità di tutto rispetto, per raggiungere i quali, però occorrerà tenere presente che uno sviluppo dell’agricoltura intensiva potrebbe portare a un peggioramento del problema idrico locale. La domanda da porsi, dunque, è se sia possibile incrementare la produzione agricola africana senza espandere ulteriormente le zone coltivate e senza compromettere le risorse idriche del Continente. Una risposta è arrivata da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture-DIATI del Politecnico di Torino, i quali in un articolo uscito sulla rivista Le Scienze hanno spiegato: «Delle rese più elevate possono contribuire a ridurre la vulnerabilità del sistema agricolo africano e a rinforzare la sicurezza alimentare sul continente, ma richiedono un elevato apporto di acqua per l’irrigazione».
Secondo le stime fornite dallo studio dei ricercatori torinesi, infatti, l’irrigazione delle colture considerate, che coprono più della metà della produzione africana, richiederà un incremento di acqua compreso tra gli 80 – previsione fino al 2040 – e i 100 – previsione fino al 2100 – km3, secondo lo scenario climatico peggiore. Tuttavia, il potenziale aumento della resa osservato è più elevato in quei paesi che oggi soffrono maggiormente di malnutrizione, come il Congo, la Somalia o il Sud Sudan, dove oltre l’80% della popolazione è in condizioni di insicurezza alimentare.
«Le regioni semiaride in cui l’agricoltura è basata prevalentemente sull’apporto di acqua piovana mostrano in genere il maggiore aumento della resa quando viene fornita acqua da irrigazione», hanno detto i ricercatori del Politecnico. «Pertanto, una migliore gestione dell’agricoltura potrebbe rappresentare una strategia affidabile per rafforzare la sicurezza alimentare e di adattamento agli impatti negativi del cambiamento climatico, se abbinata a un uso responsabile, sostenibile ed efficiente dell’acqua.
Rallentare l’aumento dell’uso dell’acqua in agricoltura è di primaria importanza e qualsiasi strategia finalizzata a questo scopo dovrebbe integrare la sicurezza alimentare e il benessere socio-economico e ambientale senza trascurare le tecnologie, le conoscenze e i mezzi di sussistenza rurali disponibili localmente». Proprio quello che sta già facendo Trees for the Future (TREES), organizzazione no-profit di agroforestazione rigenerativa, che ha avviato un progetto di riforestazione con più obiettivi: piantare un miliardo di alberi entro il 2030; ripristinare 41 mila ettari di terreno arido in meno di dieci anni per dare sostentamento a 50 mila famiglie e catturare 347 tonnellate metriche di CO2 per ettaro; aumentare la biodiversità; creare posti di lavoro; riscoprire un rapporto sano tra uomo e ambiente che permetta l’autosostentamento. L’approccio di Trees si basa sulla tecnica dei “giardini forestali”, un modello orticolo che raccoglie un’elevata varietà di specie vegetali utili modellandole sulla struttura di una foresta giovane.
Il progetto, che rientra nell’iniziativa della Grande Muraglia Verde, una cintura arborea di 8 mila km di lunghezza che l’Unione Africana sta realizzando al fine di contrastare l’avanzata del deserto, sta andando bene tanto da essere stato premiato con il World Restoration Flagship, riconoscimento assegnato nell’ambito dell’iniziativa Decennio delle Nazioni Unite per il Ripristino degli Ecosistemi (guidata da UNEP e FAO), che intende prevenire, arrestare e invertire il degrado degli ecosistemi, sulla terraferma e negli oceani. Un esempio che l’Italia potrebbe seguire.