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La “grande bellezza” secondo Donald

La legge di bilancio per il 2026 della nuova amministrazione USA sta sollevando tantissime discussioni. Al di là delle incognite legate all’intervento militare in Iran, la manovra di Trump genererebbe un aumento del deficit federale di 2,4 trilioni di dollari, implementando una politica economica regressiva. Che potrebbe allargarsi a tutto il resto del mondo.

La legge di bilancio per il 2026 della nuova amministrazione USA sta sollevando tantissime discussioni, sia sotto il profilo economico-finanziario che sotto quello politico-sociale. La sua “titolazione” è “One Big Beautiful Bill Act”; una sorta di “grande bellezza” per i suoi fautori, che però, come nell’omonimo film del regista Sorrentino, appare più grottesca che bella, negli effetti che genera, rischiando di diventare addirittura una telenovela (d’altronde Beautiful, nomen omen), stante la risicata maggioranza al Senato, di solo tre voti per i repubblicani.

Più di millecento pagine che hanno innescato tensioni anche fra la compagine governativa, compresa la definitiva frattura fra il Presidente Trump e Musk, che ha lasciato la (già taraballante, in verità) guida del DOGE, ovvero il Department of Government Efficiency, un’organizzazione temporanea creata negli Stati Uniti con obiettivo la modernizzazione della tecnologia dell’informazione, la massimizzazione della produttività e il taglio di regolamentazioni e spese eccessive (partita con l’ambizione di risparmiare 2 trilioni di dollari e fermatasi, ad oggi, a centottanta miliardi). Il primo continua a difendere il “big beautiful bill”, il secondo l’ha definito addirittura “un disgustoso abominio”.

Tra guerra e deficit

Al di là delle incognite legate al recente intervento militare in Iran che, secondo alcune stime, potrebbero far lievitare la spesa militare fino a 150 miliardi di dollari, la norma, che si prefigge di essere un boost per la crescita economica, riprende la politica dei tagli alle spese già avviata con la prima presidenza Trump (il Tax Cuts and Jobs Act del 2017), ampliandola nei contenuti soprattutto alle prestazioni socio-sanitarie e nel contempo implementa dei tagli fiscali asimmetrici che, nel loro insieme, generano un effetto regressivo e un impatto negativo su deficit e debito.

Secondo il Congressional Budget Office (CBO), se venisse introdotta senza variazioni, genererebbe un aumento del deficit federale di 2,4 trilioni di dollari (duemilaquattrocentomiliardi), dato da 3,67 trilioni di minori entrate e 1,25 trilioni di minori spese, portando il rapporto Debito/Pil dall’attuale 121% circa al 124/129% (in funzione delle stime del Pil sul 2026). Debito che, peraltro, sconta oggi tassi di interesse che non stanno scendendo proprio in virtù dei dubbi su inflazione e crescita del Pil (-0,3 nel primo trimestre 2025 e +3,8 nel secondo; ma servirebbe una crescita del Pil a doppia cifra per riassorbire l’impatto strutturale sul debito), dovuti anche alle scelte erratiche sui dazi sostenuti dall’amministrazione americana (oltre che agli scenari geopolitici incandescenti su più fronti).

Gli effetti regressivi

Ma il tema che più fa discutere è la scelta di implementare una politica economica regressiva, allocando i tagli di imposte ai percentili con redditi maggiori e tagliando i programmi di aiuti sanitari e sociali in capo ai percentili con reddito più basso. Secondo alcune stime (Yale Budget Lab e Pennsylvania University) i tagli ai programmi MedicAid (sanità), Chip (sostegno all’infanzia) – che assieme oggi vengono utilizzati da circa il 50% dei bambini americani – e SNAP (sostegno alla nutrizione; che verrebbe perso da circa 2 milioni di soggetti) genereranno un costo medio a persona di oltre mille dollari ad anno al quintile a minor reddito della popolazione americana (con maggior incidenza ai bisognosi di farmaci e cure), a fronte di risparmi medi a persona per 44 mila dollari ad anno al percentile a maggior reddito.

Tagliare le spese inutili e, soprattutto, gli sprechi, è cosa certo utile (al bilancio pubblico) e responsabile (per la sostenibilità del sistema economico-finanziario); farlo generando effetti regressivi (riducendo l’accesso ai sostegni sanitari, ai buoni pasto, alle agevolazioni scolastiche) e rimodulando asimmetricamente il carico fiscale (eliminando la tassazione su mance e straordinari, ma anche riducendola su proprietà e donazioni, senza toccare la tassazione sul lavoro), appare incoerente e – a parere di chi scrive – irresponsabile. A ciò aggiungendo l’impatto interno della nuova politica dei dazi che, a sua volta, rischia di impattare regressivamente sulle fasce più deboli.

Verso la stagflazione

Va altresì detto che le uniche voci di incremento di spesa (non marginali) sono quelle legate alla repressione dell’immigrazione, al controllo delle dogane e alle spese militari; certo, in linea con le promesse fatte in sede di elezioni (un po’ meno con chi sosteneva la nuova amministrazione come costruttrice di pace). E, ancora, che la tenuta del sistema finanziario americano dipende dalla capacità di mantenere alta la domanda di sottoscrizioni di titoli pubblici, unica leva per poter davvero ridurre i tassi. Il fatto è che l’andamento del dollaro, in calo in questi mesi sulle altre principali valute, rischia di alimentare un loop negativo che sta iniziando a far intravedere – a meno di un cambio di rotta interno, oggi difficilmente prevedibile, o di imponderabili eventi esogeni legati alle evoluzioni geopolitiche – lo spettro della stagflazione.

Il fatto è che se si inceppano gli USA, per l’effetto economico-finanziario a catena che si genererebbe, il resto del mondo non avrebbe certo di che ridere.

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