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Resilienti e vulnerabili

Cala il numero di micro e piccole imprese, aumentano le medie e grandi aziende, dove crescono nuovi posti di lavoro. Le trasformazioni strutturali del sistema economico italiano e del suo tessuto produttivo passano attraverso la questione dimensionale. Le fragilità delle professioni e il rischio mono-committenza.

L’economia italiana ha saputo reagire meglio di quanto avremmo potuto aspettarci alla doppia crisi degli ultimi anni. Dopo i lockdown imposti dalla pandemia e nonostante l’inflazione innescata prima dalle riaperture delle attività produttive, dal collo di bottiglia delle catene del valore e, successivamente, amplificata dagli extra-costi dell’energia causati dall’invasione russa in Ucraina, il Pil in volume dell’Italia è cresciuto più di quello di altri paesi di riferimento.

Rispetto al 2019, a fine 2023 la crescita è stata del 3,5%, un tasso di poco superiore a quello dell’area dell’euro ma ampiamente più elevato rispetto alla media delle altre principali economie europee (Germania, Francia e Spagna), pari all’1,3%, e alla dinamica di ciascuno dei tre Paesi.  Questo è quello che ci dicono le statistiche macroeconomiche, molto informative se si guarda alle dimensioni aggregate ma che poco ci dicono sulle trasformazioni strutturali del sistema economico e del suo tessuto produttivo. Quelle trasformazioni che possono rispondere alla domanda chiave: dopo i fortissimi shock subìti la nostra economia è più resiliente?

Se guardiamo alla “questione dimensionale” la risposta è, almeno parzialmente positiva. Considerando le 1,5 milioni di unità produttive con almeno un dipendente, industria e servizi di mercato hanno osservato una diminuzione del numero di imprese (pari rispettivamente a -2,9% e a -0,6%), al contrario delle costruzioni (+12,7%) e, in misura molto più contenuta, dei servizi alla persona (+0,8%). A fronte di questi andamenti, l’occupazione è aumentata in tutti i macro-settori: al di là dell’espansione delle costruzioni (+23,6%), riflesso dei super-incentivi edilizi, anche l’industria (+2,0%) e, in misura maggiore, i servizi (+12,7% i servizi di mercato, + 8,9% quelli alla persona) hanno incrementato il numero di addetti.

Questi effetti di ricomposizione hanno riguardato tutte le diverse classi dimensionali, generalmente a vantaggio delle medie (50-249 addetti) e delle grandi (oltre 250 addetti) unità; per queste due classi si osserva in particolare un aumento del numero di imprese in tutti i macrosettori; per le micro (3-9 addetti) e le piccole (10-49 addetti) si riscontrano invece aumenti più limitati, se non contrazioni.

Aumenta la dimensione

Il ruolo di traino delle imprese di media e grande dimensione emerge anche nella creazione di occupazione: a queste classi si deve infatti il 66,4 per cento dei circa 660 mila addetti aggiuntivi del periodo considerato. Il risultato di queste dinamiche è – come detto – un aumento della dimensione media in numerosi settori. In alcuni, questa tendenza deriva da una riduzione del numero di imprese: avviene nel comparto manifatturiero ma anche nei settori del commercio e delle attività legate al turismo e al tempo libero (trasporti, alloggio e ristorazione). In altri, si è osservata un’espansione anche in termini di unità produttive: si tratta, oltre alle costruzioni, delle imprese dei servizi Ict, delle attività immobiliari, professionali, scientifiche e tecniche, nonché delle attività di servizi alla persona quali istruzione e sanità e assistenza sociale, settori quest’ultimi in cui si collocano la maggior parte dei liberi professionisti.

Dunque l’aumento del peso relativo delle medie e grandi imprese c’è stato. E può avere implicazioni positive sulla performance complessiva del sistema. Sarà interessante, nel futuro anche prossimo, capire se questa trasformazione assumerà nel tempo caratteri strutturali, garantendo guadagni in termini di produttività anche nel confronto con le altre economie.

L’impatto sulle professioni

In questa prospettiva che cosa è accaduto al variegato mondo delle professioni? L’analisi di alcune informazioni qualitative inserite nella Rilevazione sulle forze di lavoro permette di tracciare alcune evidenze che riguardano il grado di autonomia nello svolgimento del lavoro, nonché di iniziativa economica e organizzativa.

Si tratta di caratteri che possono contribuire a identificare situazioni di maggiore vulnerabilità e che la statistica ufficiale ha cominciato da qualche anno a monitorare, nell’ambito di una sempre maggiore attenzione alla diffusione di forme di lavoro considerate – più o meno – “ibride”.

Nel 2023 i dati mostrano come la dipendenza professionale da un unico cliente caratterizzi più di un libero professionista su 10 (l’11,1% del totale). Mentre un ulteriore 12,7% ha tra i propri clienti un cliente “principale” dal quale ricava oltre il 50% del proprio guadagno. Questo legame si riduce tra i professionisti che sono anche datori di lavoro e hanno almeno un dipendente: le quote scendono infatti al 4,4% e 10,5% rispettivamente, mentre aumenta al 12,3% e 13,0% tra i liberi professionisti senza dipendenti. La dipendenza da un unico o principale cliente può rappresentare un rischio di fragilità (economica e professionale) che si osserva più spesso tra i giovani fino a 34 anni (31,0% rispetto al 20,7% tra gli over 55), le donne (26% rispetto al 22,6% degli uomini) e gli stranieri (27,2% contro 23,7% gli italiani).

La presenza di un cliente principale, in alcuni casi, definisce anche luogo e orario di lavoro, e spesso fornisce gli strumenti di lavoro e determina le tariffe e l’accesso al mercato. Se oltre il 70% dei liberi professionisti dichiara di decidere in piena autonomia l’orario di lavoro, la quota scende al 63,2% nel caso di liberi professionisti con un cliente prevalente. La possibilità di scegliere autonomamente l’orario di lavoro varia nei diversi settori anche in relazione alla necessità di lavorare sul luogo di lavoro o di incontrare il cliente; per tale motivo, la quota di chi dichiara di decidere in piena autonomia l’orario di lavoro risulta massima (78,5%) tra chi svolge attività professionali e tecniche, mentre scende al 59,0% nella sanità; in tali settori, tuttavia, la quota si riduce rispettivamente a circa il 68% e a poco più del 40% se calcolata sui liberi professionisti con cliente prevalente.

Tra i liberi professionisti senza dipendenti, l’8,2% utilizza strumenti e/o strutture di proprietà del cliente, quota che sale al 18,7% se si tratta di situazioni di presenza di un cliente prevalente; similmente, se il 25,9% lavora presso il cliente, tra chi ha un cliente prevalente la quota sale al 44,3%. La percentuale aumenta, invece, dall’11,4% al 21,2% quando si analizza la mancanza di autonomia nel fissare i prezzi e/o le tariffe.

Anche gli indicatori di tipo soggettivo mostrano come la dipendenza da un unico cliente si associ a situazioni di fragilità: tra i liberi professionisti che hanno un cliente prevalente la paura di perdere il lavoro a breve (entro 6 mesi) risulta doppia rispetto agli altri, sebbene permanga su livelli molto bassi e pari a circa il 5%. Analizzare questi elementi di fragilità economica e professionale rappresenta un primo passo verso una maggiore attenzione all’analisi delle caratteristiche e delle peculiarità del lavoro autonomo, alle libere professioni e alle loro differenze; un’esigenza dovuta anche ai cambiamenti che queste professioni potranno subire con la transizione digitale e la diffusione dell’Intelligenza Artificiale.

Dallo scorso anno Istat ha adottato la nuova classificazione delle professioni che ci allinea ulteriormente a quella internazionale (la ISCO08) ma riconosce e valorizza le specificità del nostro sistema produttivo. Si tratta di un nuovo strumento fondamentale per fornire informazioni su singole tipologie di libere professioni e conoscerne l’evoluzione, una prospettiva di analisi complementare e imprescindibile rispetto a quella molto più avanzate che riguardano il sistema delle imprese.

 

 

 

 

 

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