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Il lavoro senza competenze

L’impatto delle nuove tecnologie e l’esodo pensionistico dei lavoratori anziani sta facendo emergere un fabbisogno non soddisfatto di servizi professionali evoluti. E la transizione digitale ed ecosostenibile della nostra economia, sostenuta dal Pnrr, si scontra con la carenza di lavoratori competenti e di politiche attive del lavoro.

Le tendenze del nostro mercato del lavoro vengono generalmente commentate in relazione all’andamento dell’occupazione dei lavoratori dipendenti e sulle caratteristiche dei rapporti di lavoro. Alle dinamiche dei lavoratori autonomi vengono dedicate poche battute. Nonostante il loro impatto sulla forza lavoro (il 21% del totale degli occupati risulta superiore rispetto alla media dei paesi europei (13.8%).  Il fenomeno trova una spiegazione nella complessa galassia dei mestieri e delle professioni accomunati dalla partita Iva, ma che non esprimono interessi univoci.

Questo aggregato viene attualmente quantificato dall’Istat in circa 5,1 milioni di partite Iva. una buona parte di queste micro imprese e di studi professionali assume lavoratori dipendenti. La componente principale, circa 3,4 milioni, è rappresentata dall’insieme dei mestieri (coltivatori diretti, artigiani e commercianti) che sono parte integrante delle filiere della produzione e della distribuzione di beni e servizi. Segue quella dei professionisti, circa 1,3 milioni, per la gran parte appartenenti agli ordini professionali o a categorie ben identificate che hanno caratteristiche simili. Il mezzo milione residuale di occupati è rappresentato dal magmatico aggregato dei lavoratori parasubordinati (agenti commerciali, intermediari immobiliari, piccoli trasportatori, collaborazioni coordinate, lavoratori occasionali), iscritti all’apposito fondo pensionistico presso l’Inps.

L’evoluzione degli autonomi

Sono numeri che fanno comprendere come le prospettive del nostro mercato del lavoro dipendano in modo significativo anche dall’evoluzione delle varie componenti dei lavoratori autonomi. La riduzione del numero dei lavoratori nel corso degli anni 2000 è dovuta ad alcuni fattori strutturali. In particolare: alla riorganizzazione delle reti commerciali; alla contrazione del peso del settore delle costruzioni sul Pil; alle restrizioni normative introdotte nel 2014 (job act) per l’utilizzo delle collaborazioni coordinate continuative. Nel contempo si è ridotta in modo significativo anche la propensione a generare nuove microimprese. Le cause sono attribuibili al declino demografico del numero dii giovani in età di lavoro e all’indisponibilità di una parte essi a dare continuità alle imprese avviate dai genitori.

Alla rigenerazione dei lavoratori autonomi e dei professionisti è mancata la spinta del comparto del terziario avanzato e dell’utilizzo delle tecnologie digitali nelle attività produttive e nella erogazione dei servizi che hanno svolto un ruolo propulsivo per la crescita della produttività e dell’occupazione nei Paesi sviluppati nel corso degli anni 2000.

Nelle indagini effettuate dall’Eurostat relative alle caratteristiche degli occupati nei paesi della Ue, l’Italia è l’unico Paese che ha registrato una perdita:  -1,3 milioni di lavoratori con qualifiche medio elevate, tra i quali circa 600 mila lavoratori autonomi. Il ritorno al numero degli occupati precedenti alla crisi economica del 2008 è avvenuto grazie ad un’analoga crescita degli addetti ai servizi nella fascia delle basse qualifiche. Due terzi del divario occupazionale del tasso di occupazione rispetto alla media dei paesi Ue, (-9% equivalente a poco più di 3 milioni di posti di lavoro a parità di popolazione), si manifesta nei comparti della sanità, dell’istruzione, della cura alle persone e dei servizi destinati alle imprese.

Carenza di competenze

Sulla mancata domanda di prestazioni e di personale pesa la carenza degli investimenti pubblici nei comparti citati, che hanno avuto un peso rilevante per la digitalizzazione dei servizi; per la crescita della produttività e sulla domanda di personale qualificato (dipendenti e autonomi) per trasferire e gestire le innovazioni tecnologiche nelle organizzazioni del lavoro. In parte, ciò è avvenuto anche in Italia durante la ripresa economica nei tre anni recenti sull’onda del Superbonus per le ristrutturazioni abitative che, per quanto criticabile per l’impatto sui conti pubblici, ha stimolato la domanda di progettisti, esperti di nuovi materiali, certificatori, personale esecutivo specializzato, che hanno contribuito a compensare le perdite occupazionali subite dalla componente dei professionisti e dei lavoratori autonomi nel corso della pandemia.

L’impatto delle nuove tecnologie sulle organizzazioni produttive e l’esodo pensionistico dei lavoratori anziani sta facendo emergere un fabbisogno non soddisfatto di servizi professionali evoluti.  Il programma Next Generation EU, finanziato con le risorse del Pnrr, propone come obiettivo principale quello di rimediare la carenza di dotazione di infrastrutture e di risorse umane in grado di attrezzare il nostro Paese per reggere la transizione digitale ed ecosostenibile della nostra economia. Ma si scontra con l’oggettiva carenza di lavoratori competenti e di politiche attive del lavoro. Queste ultime risentono della scarsa mobilitazione del sistema della formazione per soddisfare i nuovi fabbisogni e per agevolare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.

L’ibridazione delle tutele

Nel contempo l’impiego delle piattaforme informatiche in molti ambiti (logistica, manutenzione di infrastrutture e di beni durevoli, franchising) ha stimolato l’impiego delle partite Iva e delle collaborazioni a prestazione per soddisfare i fabbisogni di flessibilità delle imprese committenti, con caratteristiche di subordinazione simili al lavoro dipendente e con i relativi fabbisogni di tutela. Novità che sono diventate oggetto di numerosi interventi della magistratura e di una Direttiva europea che propende ad assimilare le prestazioni e le tutele a quelle del lavoro dipendente.

Il tema della regolamentazione del lavoro a prestazione comincia ad emergere nella contrattazione collettiva come conseguenza della diffusione dello smart working per i lavoratori dipendenti. Ma è un’esigenza che si manifesta anche per tutelare i lavoratori con partite Iva che ottengono risultati migliori offrendo prestazioni verso più datori di lavoro.

L’ibridazione del sistema delle tutele tra lavoro dipendente e quello autonomo è un processo inevitabile e che deve essere affrontato con modalità inedite dalle rappresentanze del mondo del lavoro che riguardano sia le modalità di remunerare il lavoro sulla base delle ore lavorate o degli obiettivi raggiunti, sia la valutazione del grado di autonomia o di dipendenza del lavoratore, sia la possibilità di svolgere le prestazioni in esclusiva o verso più datori di lavoro.

I contenuti della rappresentanza

Il cambio di paradigma fatica a essere assunto dalle attuali rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori perché comporta uno sconfinamento del perimetro categoriale e dei contenuti della rappresentanza. Prevale pertanto la tentazione di rispondere al fabbisogno di nuove tutele aumentando la produzione di norme legislative e sollecitando nuovi pronunciamenti della magistratura in materia dei trattamenti salariali e di tutele.

È un percorso che prescinde dalla capacità di analizzare correttamente i fabbisogni e di aggiornare le tutele senza deprimere le potenzialità delle innovazioni tecnologiche e la crescita della produttività. L’innovazione sociale non può prescindere dal ruolo delle rappresentanze sociali e dall’esigenza di esercitare il compito della mediazione sociale degli interessi e della valorizzazione combinata del capitale investito e delle competenze dei lavoratori.

 

 

 

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