Il primo gennaio 2024 torneranno in vigore le regole fiscali europee, sospese a causa della pandemia nel marzo del 2020. Ma quali regole? Quelle vecchie o quelle nuove? E la riforma è un vantaggio per l’Italia?
Nel novembre del 2022, la Commissione europea, dopo un lungo processo di consultazione pubblica, ha presentato una “comunicazione” in merito a una proposta di riforma delle regole fiscali europee. Ne è seguito un intenso dibattito, culminato nelle conclusioni dell’Ecofin del 15 marzo 2023, in cui i paesi membri, pur apprezzando la comunicazione, hanno avanzato richieste di chiarimento e proposte di modifica. Su questa base, a fine aprile 2023, la Commissione ha presentato alcune proposte legislative (due nuovi regolamenti e una decisione), che vengono ora negoziate e saranno poi approvate dai paesi membri e dal Parlamento europeo attraverso i meccanismi decisionali specifici di ciascuna.
La speranza della Commissione è che il processo si concluda entro la fine dell’anno, per evitare che nel 2024, quando si terranno le elezioni europee, si determini un interregno con entrambi i sistemi di regole simultaneamente parzialmente operanti.
Le novità
Ma quali sono le principali novità delle proposte legislative? In primo luogo, scompare l’idea di distinguere ex ante i diversi Paesi sulla base di una misura della “rischiosità” del loro debito, a sua volta definita impiegando la stessa debt sustainability analysis (Dsa) che la Commissione già usa nei suoi rapporti bi-annuali sulla stabilità finanziaria dei paesi europei. Ora invece tutti i paesi che presentano o un disavanzo superiore al 3 per cento del Pil o un debito superiore al 60 per cento (i due parametri di Maastricht) saranno sottoposti a un processo di aggiustamento. La modifica è stata richiesta dai Paesi ad alto debito (incluso il nostro) che temevano, anche nei confronti dei mercati finanziari, l’effetto “stigma” che poteva risultare da una dichiarazione esplicita da parte della Commissione che il loro debito era più rischioso di quello di altri.
La Dsa resta, ma solo per stimare la “traiettoria tecnica” della spesa primaria netta che la Commissione propone ai singoli paesi per raggiungere l’obiettivo del “Piano di aggiustamento di medio termine” e cioè un “altamente probabile” processo di riduzione del rapporto debito su Pil nei dieci anni successivi alla conclusione del Piano (a legislazione invariata). Si è scritto che la Commissione solo “propone”, perché è previsto che ciascun paese, in un dialogo strutturato con la Commissione, possa presentare un Piano e dunque un percorso per la spesa netta diverso.
Il Piano è di durata quadriennale ma può essere portato anche a sette anni nel caso siano previste riforme e investimenti in campi specifici e ora meglio definiti. Il Piano proposto dal paese deve essere poi approvato dalla Commissione e dal Consiglio per diventare operativo.
Resta, dunque, la sostanza degli elementi di riforma che costituivano le principali novità della comunicazione di novembre: il carattere di medio termine del Piano, il fatto che sia proposto dagli stessi paesi e infine il fatto che la Commissione lo verificherà monitorando solo l’andamento della spesa primaria netta.
Vincoli e criticità
L’elemento cruciale della riforma su cui invece continua a non esserci ancora sufficiente chiarezza è quanto ampi saranno in pratica i margini di trattativa che i singoli Paesi avranno per modificare la traiettoria proposta dalla Commissione. È un elemento decisivo per garantire uno degli obiettivi principali della riforma: basare le regole su un percorso di aggiustamento condiviso, che garantisca la national ownership (titolarità) dei singoli paesi. Da questo punto di vista, come già argomentato altrove, sarebbe stato preferibile un processo di convergenza in cui fosse il paese a presentare la proposta, con un controllo tecnico successivo da parte della Commissione e non viceversa.
In ogni caso, soprattutto per insistenza dei paesi del Nord Europa (Germania in primis) che temevano un eccessivo annacquamento delle regole fiscali, la Commissione ha introdotto nelle proposte legislative ulteriori vincoli (safeguards) al percorso del Piano di aggiustamento. In primo luogo, e indipendentemente da quanto previsto nel Piano, l’obbligo di una riduzione del deficit dello 0,5 per cento annuo per i paesi il cui deficit superi il 3 per cento del Pil. L’aggiustamento è uguale a quanto già previsto per i Paesi che la Commissione ha dichiarato in procedura di disavanzo eccessivo (Edp); la novità è che si applica ora anche ai Paesi non in Edp. In secondo luogo, il rapporto debito su Pil a conclusione del Piano deve essere inferiore allo stesso rapporto nell’anno precedente al varo del Piano. In terzo luogo, l’aggiustamento deve essere proporzionato alla durata del Piano, il che significa che soprattutto nel caso in cui un paese chieda un allungamento a sette anni del processo di aggiustamento, i quattro settimi della riduzione prevista del debito devono essere raggiunti nei primi 4 anni. Infine, la dinamica della spesa primaria netta nel periodo di applicazione del Piano deve essere inferiore a quella prevista del Pil. È la novità più discutibile: equivale a richiedere un miglioramento dell’avanzo primario anche quando non necessario per ridurre il rapporto tra debito e Pil.
È bene ribadire tuttavia che questi vincoli valgono ex ante, al momento della formulazione e approvazione del Piano. Nella fase del monitoraggio, ex post, l’unica cosa che conta è che il Paese rispetti il percorso di crescita della spesa primaria netta previsto. Così, ad esempio, se l’obiettivo di riduzione del debito non si realizza solo perché le previsioni economiche su cui si basava il Piano si rivelano ex post troppo ottimistiche, il Paese è comunque adempiente e il problema verrà casomai affrontato con i Piani successivi.
Restano nella proposta una serie di aspetti, forse solo retorici, che rischiano di essere velleitari e generare complessità inutili. In particolare, il riferimento a proiezioni decennali del debito oltre l’orizzonte del piano (quindi fino a diciassette anni dalla data iniziale). Se venissero presi troppo sul serio rimane il rischio che tutto l’armamentario di variabili non osservate (prodotto potenziale e output gap), di cui la riforma intenderebbe liberarci, ritorni sotto altra veste. È invece importante che il focus dell’aggiustamento rimanga sull’orizzonte quadriennale del Piano, che tra l’altro coincide con quello degli attuali programmi di stabilità, e che, comunque, dopo quattro anni dovrà essere rivisto.
Le valutazioni
Le proposte legislative non cambiano dunque la sostanza della riforma, sebbene l’introduzione di valutazioni e vincoli ulteriori contrastanti con l’approccio generale dalla Commissione indicato a novembre. Per esempio, nella comunicazione era evidente lo sforzo della Commissione di depotenziare, non riuscendo a cambiarla, la soglia del 60 per cento del rapporto debito su Pil come obiettivo per la politica fiscale. Ora, il fatto che la Commissione debba prevedere una “traiettoria tecnica” dalle caratteristiche discusse sopra anche per un Paese con un debito poco superiore al 60 per cento rischia di introdurre una generale spinta deflattiva in Europa (dove il rapporto debito su Pil è ancora in media attorno al 90 per cento), di cui si poteva fare tranquillamente a meno. Inoltre, le ulteriori “garanzie” previste per il processo di aggiustamento per i paesi ad alto debito lo rendono più incisivo di quanto strettamente necessario, sebbene, per esempio, vada valutato con favore l’obbligo di non rimandarlo agli ultimi anni. È anche difficile dire se le proposte legislative saranno alla fine approvate senza grandi rimaneggiamenti. Per il momento, tutti i Paesi (Italia compresa) sono schierati sul “favorevole ma solo se è previsto anche che…”: è evidente però il carattere anche strategico di queste dichiarazioni data la contrattazione in corso.
Al di là di tutti questi aspetti, la riforma conviene al nostro Paese, tenendo conto del fatto che anche gli strumenti per vincolare un Paese al rispetto delle regole vengono ora rafforzati? Concettualmente, non c’è dubbio che un processo di aggiustamento delle finanze pubbliche basato su un percorso multi-periodale e che tenga conto dei più generali obiettivi di politica economica (le riforme e gli investimenti), sia superiore ai vincoli quantitativi fissi annuali previsti dalle regole attuali. Inoltre, l’indicatore della spesa primaria netta ha proprietà che lo rendono migliore dell’alternativa oggi utilizzata (il disavanzo strutturale). Il problema, però, è se il Paese, cioè la sua classe politica, sia in grado di prendere impegni credibili di medio periodo sul bilancio. La politica italiana è tradizionalmente caratterizzata da una rincorsa disperata al consenso nel brevissimo periodo, che la porta sempre a favorire maggiori disavanzi pubblici nell’immediato, scaricando l’onere dell’aggiustamento sul futuro. Le campagne elettorali da black friday sono un risultato di questo atteggiamento, del resto apparentemente gradito dall’opinione pubblica. Sfruttare le opportunità offerte dalla riforma richiede un processo di maturazione del Paese di cui per il momento si vedono poche tracce.