Italia vendesi

Il numero dei marchi made in Italy controllati da società estere ha subìto un balzo del 26% negli ultimi 6 anni. E oggi gli investitori stranieri guardano con particolare interesse alle nostre Pmi operanti nei settori innovativi e di frontiera.  Un trend destinato a durare ancora a lungo e da guardare in positivo.

Quando, lo scorso febbraio, i media hanno dato conto della cessione – l’ultima, in ordine cronologico – della società di raffinazione Saras, la realtà industriale più grande della Sardegna, da parte della famiglia Moratti al gruppo petrolifero svizzero-olandese Vitol (per una capitalizzazione di circa 1,7 miliardi di euro), com’era prevedibile, si è alzata qualche voce preoccupata sull’Italia come terra di conquista industriale da parte degli stranieri. Parallelamente, si è fatto largo qualche dubbio sulla capacità del Paese di proteggere i grandi nomi del Made in Italy, simbolo dell’eccellenza nostrana nel mondo, la cui proprietà però parla sempre di più straniero, perché acquisiti – in parte o totalmente – da fondi di investimento, gruppi o holding internazionali.

No al protezionismo

Ma la preoccupazione e il dubbio sono giustificati? O si tratta solo di piccole ferite che danneggiano più l’orgoglio italico che l’economia italiana? Secondo Eugenio Morpurgo, amministratore delegato e socio fondatore di Fineurop Soditic S.p.A., società del Gruppo Fineurop focalizzata in operazioni di fusione e acquisizione, nonché Presidente della Commissione M&A di AIFI e docente in Investment Banking presso l’Università Bocconi di Milano: «Quando si parla di M&A è meglio abbandonare tentazioni protezionistiche, salvo limitarsi a gestire con attenzione la cessione di asset strategici, caso peraltro disciplinato dall’istituto della Golden Power che qualche anno fa è stato rafforzato». In realtà, dalle griffe del lusso ai marchi dell’automotive, dalle maison di moda alle società di calcio, dalle imprese del food a quelle del beverage, dall’industria aerospaziale a quella delle costruzioni e del cemento: è da parecchio tempo che – con risvolti più o meno positivi – i settori strategici del comparto manifatturiero italiano sono al centro di acquisizioni estere, grazie a eclatanti operazioni “estero su Italia”, come si chiamano in gergo.

Italia a caccia di business

Eppure, continua Morpurgo: «Va rilevato che anche il filone delle acquisizioni di aziende estere da parte delle nostre società è piuttosto marcato e in deciso aumento. I nostri campioni nazionali (Campari, Amplifon, Ferrero, Merloni, Ali Group, Perfetti, per dirne alcuni) si fanno valere nell’arena estera con acquisizioni importanti». E infatti, secondo il Barometro M&A realizzato dal colosso della consulenza e della revisione EY l’anno scorso le operazioni di M&A annunciate da parte di aziende italiane su target estero sono state 261, con un valore aggregato cresciuto del 21%, anche per effetto di alcuni megadeal con valore di acquisizione superiore a 1 miliardo di euro nei settori energia, servizi finanziari e farmaceutico.

Gli stranieri guardano alle Pmi

Che, però, negli ultimi cinque anni il panorama imprenditoriale italiano abbia subito un’impressionante trasformazione, lo certificano i dati elaborati da Infocamere – la società consortile delle Camere di Commercio italiane per l’innovazione digitale – secondo cui c’è stato un aumento significativo (più 26%) del numero di marchi controllati da investitori stranieri: da 4.218 a fine 2017 a 5.435 nel 2023, con un balzo, nell’intero campo industriale italiano, dall’1,4% all’1,9%. Ma, ed è questo l’elemento di novità, oggi è l’appeal delle Pmi, e particolarmente quelle dei settori innovativi e di frontiera, a esercitare un forte richiamo per compratori e investitori esteri, anche a fronte dei nodi tutti italiani rappresentati da un sistema fiscale, giuridico e amministrativo non particolarmente smart. Sostiene Morpurgo: «L’Italia vanta un settore manifatturiero di eccellenza, con numerose Pmi ad alta tecnologia e una forte propensione all’export. Anche il settore dei servizi, inclusa l’IT, si presenta dinamico e ricco di realtà imprenditoriali vivaci e in crescita». Quindi in grado di attrarre sia investitori strategici che investitori finanziari: «Ma oltre alla qualità delle aziende e la loro redditività, conta anche il fatto che il “rischio Paese” dell’Italia, negli ultimi 10-12 anni, sia rimasto sotto controllo: la tenuta complessiva del nostro sistema viene considerata positivamente. Anche gli operatori domestici apprezzano investimenti locali, in un’ottica di inshoring», continua Morpurgo. Poi, per una mera equazione statistica: «essendo vasto il numero di Pmi di qualità presenti sul mercato italiano, rispetto ai pochi campioni nazionali di grandi dimensioni», oggi è più facile che le Pmi siano un obiettivo concreto e attraente per investitori strategici e finanziari, desiderosi di acquisire aziende con solide performance e un potenziale in ascesa.

Niente panico

E allora, leggendo dati e statistiche con una lente d’ingrandimento più ampia e meno “sovranista”, si scopre che l’allarme per il comparto manifatturiero italiano sempre più a guida straniera potrebbe anche trasformarsi in motivo di orgoglio, considerando come la crescita delle acquisizioni transfrontaliere rappresenta una potente driver di sviluppo anche per le piccole e medie imprese italiane, desiderose di cogliere le opportunità offerte da investitori esteri al fine di rafforzare la propria competitività. Precisa Morpurgo: «In termini di provenienza degli investitori, i grandi fondi internazionali guardano soprattutto a operazioni di taglia rilevante, i fondi paneuropei di medie dimensioni e i fondi italiani mostrano invece un grande interesse alle Pmi. Gli acquirenti strategici sono flessibili quanto alla dimensione, non avendo un “regolamento” interno che disciplini l’allocazione delle risorse». Ce n’è abbastanza per poter sostenere che l’attrazione degli investitori esteri verso le piccole e medie aziende italiane sia destinato a continuare, specialmente in quelle attive nei settori di frontiera e innovazione? «Prevedo la continuazione di un forte trend di consolidamento delle Pmi ad opera sia di acquirenti esteri sia di gruppi italiani, nonché di fondi di private equity», conclude Morpurgo. «Il numero complessivo di operazioni di M&A all’anno sul mercato italiano rimarrà stabilmente sopra le 1200-1250 con valori complessivi di 60-80 miliardi di euro, dunque davvero un mondo di operazioni piccole e medie. Non c’è dubbio che, anche per motivi generazionali e di sottocapitalizzazione, molte piccole aziende siano in vendita ma anche che il numero dei potenziali compratori di medie dimensioni (e non solo grandi), sia in aumento. Per questo non si dovrebbe ragionare sullo “stillicidio” di cessioni italiane, chiedendosi con ansia “what is next”, piuttosto andrebbe guardata con favore la creazione di poli europei sempre più solidi e competitivi. E il ruolo del private equity, in questo campo, come promotore di aggregazione è molto importante».

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