Le nuove tecnologie rendono al meglio nelle realtà professionali con un flusso di lavoro importante che produce grandi volumi. Quindi negli studi aggregati, dove gli investimenti in AI stanno liberando i professionisti da attività quotidiane ripetitive e rutinarie, permettendo loro di essere riqualificati e avviati a mansioni più specializzate, che consentono allo studio di offrire nuovi servizi e battere la concorrenza.
Non è più il tempo della diffidenza. A sei anni dall’approdo dell’Intelligenza Artificiale sul mercato italiano, la sorpresa di fronte alle nuove frontiere tecnologiche sta lasciando il posto ai primi, incoraggianti, approcci. A dirlo è un report dell’Osservatorio Artificial Intelligence del Politecnico di Milano, secondo il quale il mercato dell’AI in Italia mostra una crescita significativa, con un giro d’affari di 760 milioni di euro nel ’23 (in aumento del 52% rispetto all’anno precedente). Eppure, la maggior parte di questo volume è costituito dagli investimenti delle grandi imprese (telcomunicazioni, media e assicurazioni, i settori più sensibili), mentre solo il 20% delle PMI è attivo nell’AI, anche perché molte di queste piccole e medie aziende non hanno ancora un’infrastruttura IT adeguata per gestire i Big Data, ossia il “pane” di questi software intelligenti. Parallelamente, anche i professionisti italiani, ossia coloro che offrono i propri servizi (legali o contabili) al mondo delle PMI, di fronte alla costante crescita di startup innovative pronte a facilitare il loro lavoro con le soluzioni AI, hanno cominciato a muovere i primi passi verso la nuova era hi-tech. Quantificare quanti siano gli studi che hanno investito in AI non è facile anche se, in base a una ricerca del 2022 condotta dall’Università di Pavia, in collaborazione con Si-Net e Accademia dei Commercialisti, meno di uno studio professionale su 10 scommette forte sul digitale investendo per trasformare la propria attività. Due anni fa, infatti, quasi due studi su tre hanno speso in media non più di 5mila euro l’anno in soluzioni e applicativi digitali, ma c’è anche una quota del 9,2% che sta spingendo sull’acceleratore investendo oltre 15mila euro. Percentuali che non sono variate di molto come confermano i dati della ricerca 2023 dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione digitale della School of Management del Politecnico di Milano, in base ai quali la spesa dei professionisti italiani nel digitale ha raggiunto un valore di 1,765 miliardi, in linea con i risultati dell’anno precedente (+0,4%). Tra gli studi professionali più attivi figurano indubbiamente quelli legali e quelli di commercialisti dove, non a caso, l’aggregazione sta andando bene.
Largo al legal nerd
Nello scenario presentato da Sogei, la SpA del Ministero dell’economia nel comparto ICT, gli ambiti di intervento dell’AI per gli studi legali sono molti e molto penetranti. Qualche esempio? I sistemi di Machine Learning (ML) possono essere applicati nella ricerca tra grandi volumi di dati relativi a leggi, sentenze e casi scuola. Così come nella revisione dei contratti (estrazione automatizzata di clausole, termini e condizioni, in conformità a standard normativi) o nella previsione di esiti giudiziari. Gli applicativi RPA (Robotic Process Automation) utilizzano invece tecnologie di automazione per eseguire attività rutinarie e ripetitive (preparazione di documenti standard, gestione delle scadenze, invio di notifiche); mentre strutture di NLP (Natural Language Processing) o di LLM (modello linguistico di grandi dimensioni, alla base del noto ChatGPT) sono in grado di creare sistemi di interazione testuali per fornire di risposte immediate, e comprensibili, ai più comuni quesiti di natura legale, sempre sotto la supervisione dell’avvocato.
A dirla così, sembra davvero l’Eldorado 4.0 per i legali, che dovrebbero però essere disposti a indossare i panni dei nerd, nel dialogare con software che evadono pratiche lunghe e noiose, liberando risorse per attività di più alto valore aggiunto.
«Sono avvocato nel 1978», dice Antonello Martinez, presidente dell’Associazione Italiana Avvocati d’Impresa e fondatore dello Studio Martinez & Novebaci (con 50 professionisti e sedi a Milano, Torino, Londra e Miami), «Quando ancora c’erano le macchine per scrivere. Ho quindi attraversato tutte le fasi dell’avanzamento tecnologico, fin dall’avvento del Commodore 64, e sono particolarmente sensibile all’innovazione. Compreso l’approdo di AI. Che, però, allo stato attuale non ritengo abbia espresso tutto il suo potenziale nel soddisfare le esigenze degli uffici legali. Nel nostro studio da tempo usiamo un’applicazione in grado di fare ricerca tra le sentenze e restituire un report, con risultati molto buoni. Un validissimo aiuto e un notevole risparmio di tempo, anche in considerazione del fatto che in Italia sono in vigore 160mila leggi statali (senza contare quelle regionali, quelle comunali)». Questo però non significa che l’AI si destinata a togliere lavoro ai professionisti. Anzi. «L’esperienza mi fa dire che, nella redazione di un atto o nella stesura di una lettera, la sensibilità e l’esperienza umana continuano a essere più efficaci dell’intelligenza artificiale. Sia chiaro, con i progressi tecnologici in atto, fra qualche mese può cambiare tutto, ma il giudizio umano resta ancora fondamentale, soprattutto nella definizione delle strategie processuali, che vanno modellate caso per caso. Poi, non v’è dubbio: per restare al passo coi tempi, uno studio legale deve investire sia nell’acquisizione di strumenti all’avanguardia sia nell’aggiornamento dei propri professionisti».
Sì all’innovazione
Di formazione, investimenti e di un nuovo approccio degli studi professionali, parla anche Giovanni Emmi, commercialista, membro della commissione AI e bilanci del CNDCEC, amministratore delegato di Proclama, una SpA di commercialisti e consulenti, con una rete di circa 140 professionisti e una community di circa 700 membri: «La distinzione è d’obbligo: i piccoli studi, che poi sono la maggioranza in Italia, non ritengono attraenti le soluzioni AI per il proprio lavoro quotidiano, di natura prevalentemente contabile. Per questo sono refrattari all’innovazione e si limitano a usare software gestionali. Diverso il discorso per gli studi che hanno invece scelto, per crescere, di aggregarsi», spiega Emmi. «Intendiamoci, anche noi facevamo parte della categoria dei piccoli. Il mio studio nasce a Linguaglossa, in provincia di Catania, nel ’99. La svolta è arrivata quando abbiamo deciso di sfruttare il web, riuscendo a intercettare clienti in tutta Italia, e poi stringendo accordi con un’azienda americana per piattaforme no code e low code che permettono di creare applicazioni personalizzate, anche senza approfondite competenze di programmazione. Nel 2022, con l’arrivo dell’AI, abbiamo creato un pool interno di ricerca e sviluppo non solo per usarla, ma anche per creare strumenti “customizzati” per gli studi medio-grandi: chat addestrate, cioè esclusivamente dedicate a uno specifico argomento, che ricevono domande su un argomento e rilasciano risposte precise e contestualizzate (sul regime forfettario, sulla dichiarazione dei redditi, sui codici Ateco, e così via); un’app per la realizzazione di un blog automatizzato, per una comunicazione più veloce e completa; un programma che genera la parte descrittiva e numerica per progetti di finanza agevolata; uno per la realizzazione di business plan o per la valutazione sulla crisi di impresa; un programma che riporta, meglio di una visura camerale, i dati relativi a un’azienda, con una lettura articolata, attuale e di prospettiva, sul suo stato di salute. A breve, tutti questi tools saranno contenuti nella nostra web application (partitaiva.ai), dedicata ai professionisti dell’area legale/economica e alle piccole imprese». Sta quindi nell’accettare queste nuove sfide, il cambio di approccio dei commercialisti. Ma non solo, come precisa Emmi, è importante anche spiegare ai commercialisti «che le soluzioni AI non sono chiuse, ma pensanti. Restituiscono cioè risposte complete, argomentate, conversazionali e probabilistiche. Rendere quotidiano l’uso di questi strumenti serve anche ai piccoli contabili per specializzarsi e non sparire».
Alla tecnologia piacciono i grandi volumi
C’è una seconda chiave di lettura per interpretare l’impatto dell’intelligenza artificiale negli studi professionali: considerarla come uno dei più decisivi e attuali driver per l’aggregazione. Lo sostiene Giangiacomo Buzzoni, partner di MpO, società di consulenza, costituita da commercialisti, revisori legali e avvocati, specializzata nelle operazioni di cessione e fusione: «Ci sono vari ordini di motivi per cui i servizi AI rendono al meglio negli studi di grandi dimensioni. Il primo, i costi: servono cifre importanti per acquistare, per esempio, un programma AI in grado di stilare, con il 100% di automazione, la bozza di un bilancio. E le piccole realtà, che in Italia sono la maggioranza, non possono disporre di queste risorse. Non solo: a volte sono così piccole da non produrre un volume di informazioni adeguato ad alimentare i sistemi AI. E ancora: tra i vantaggi dell’AI c’è quello di automatizzare buona parte del lavoro, ma se il flusso di lavoro non ha grandi volumi, affidarsi all’intelligenza artificiale non è un valore aggiunto. Diventa invece vantaggiosa l’AI negli studi aggregati anche perché, liberando i professionisti da attività quotidiane ripetitive e rutinarie, quelle stesse figure possono essere riqualificate e avviate a mansioni di maggiore specializzazione, che permettono allo studio di offrire nuovi servizi. Da questo punto vista è interessante notare come, nell’affrontare la tecnologia AI, i professionisti degli studi di più grandi dimensioni si pongano la domanda: “Cosa posso fare?”, mentre quelli di studi piccoli si chiedano: “E adesso, che cosa succederà?”».