Mont-roig del Camp è un piccolo borgo catalano arroccato su una collina, a sud di Tarragona. Oggi è noto perché la famiglia di Joan Mirò possedeva qui una grande casa di campagna che il pittore amava tantissimo. Il padre l’aveva acquistata nel 1911 e l’artista vi trascorse ogni estate fino al 1976. La tenuta, con l’ambiente circostante, fa parte dei cosiddetti “paesaggi emozionali” di Mirò, ovvero quei luoghi che abitavano anche la sua mente e per i quali nutriva un forte attaccamento. Prima di abbandonare definitivamente la pittura figurativa, Mirò realizzò alcune vedute del borgo di Mont-roig e dei suoi dintorni, nonché una celebre veduta (oggi conservata alla National Gallery of Art di Washington) della fattoria di famiglia, che oggi esiste ancora. E’ gestita dalla Fundaciò Mas Mirò ed è aperta al pubblico. E’ situata fuori dal paese, in pianura, e prima di raggiungere il cancello d’ingresso si deve fare un giro sotto alcuni cavalcavia dell’autostrada. Immediatamente, al visitatore sorge il terribile dubbio su ciò che troverà al suo arrivo e il presentimento che siano rimaste poche le tracce che possano riportarlo ai lunghi soggiorni dell’artista nella casa famigliare. Come per una sorta di evento magico, invece, una volta oltrepassata la cancellata, ci si ritrova immersi in un’altra dimensione e il profilo dei bianchi edifici che compongono la masìa (è il termine catalano per questo tipo di edifici rurali) fuga ogni dubbio. L’abitazione conserva i rivestimenti e gli arredi originali, compreso l’atelier dove sembra quasi che Mirò ci abbia lavorato fino ad un minuto prima. Un giardino lussureggiante regala ombra e pace e, stranamente, i cavalcavia che ingombravano la vista e i pensieri sembrano scomparsi chissà dove.
Visitare la dimora di un artista significa raggiungerlo nel suo tempo, scoprirne la quotidianità. E diventa più facile avere accesso ai perché della sua poetica. Spesso, si ha la sensazione di violare un rifugio, eppure quell’atmosfera sospesa che avvolge queste case diventate musei, è l’affascinante condizione che accompagna chiunque ne varchi la soglia. Sul sito www.museionline.it, alla voce “Tipologie” cliccate su “Case Museo” e vi si aprirà un mondo. Abbiamo visitato tre case di artisti molto diversi tra loro, ma accomunati da una particolarità: la presenza di famigliari che in modi diversi e con tenacia, si sono sono occupati – o tuttora si occupano – del lascito artistico del proprio caro.
Casa Balla, un tuffo nel futurismo
Giacomo Balla (Torino 1871- Roma 1958) fu tra i primi artisti ad aderire al Futurismo, appena fu dato alle stampe il manifesto fondativo scritto dal poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti. Era il 1909 e, da lì in poi, seguiranno altri manifesti futuristi declinati al servizio di ogni aspetto della vita. Il Futurismo, infatti, non interessò solo la letteratura, l’arte o la musica, ma – secondo gli aderenti – doveva coinvolgere qualsiasi aspetto della quotidianità, mettendo in connessione tra loro i diversi linguaggi artistici. Si parlava di arte totale e Balla fu tra i principali esecutori di questo principio, tanto da dare alle stampe, nel 1915, il manifesto sulla Ricostruzione futurista dell’universo, firmato con l’amico Fortunato Depero. Casa Balla è la perfetta traduzione nella realtà del pensiero futurista, in cui connubio tra estetica e funzionalità fa sì che l’atto artistico interessi qualsiasi oggetto di uso quotidiano. Nel 1929 Balla si trasferì con la moglie Elisa Marcucci, di professione sarta, e le figlie Luce ed Elica (potranno esserci nomi più futuristi di questi?) in un anonimo palazzo del quartiere romano Della Vittoria, ma, fin da subito, la nuova casa diventerà un laboratorio di idee e sperimentazione. Un tripudio di forme e colori copre letteralmente pavimenti, muri e soffitti. Balla, coinvolgendo moglie e figlie, progetta e realizza qualsiasi oggetto contenuto nella casa. Disegna lampadari, i decori delle piastrelle e dei piatti. Costruisce sedie, tavoli e letti, solo in apparenza poveri. Non c’è un angolo del piccolo appartamento che non venga investito da questa accesa tempesta creativa. Il Futurismo fu la fase più importante della vita artistica di Balla, ma già nel 1937, se ne discostò, convinto che il movimento avesse smarrito le idee delle origini. Perciò, fu estromesso dalla cerchia dell’arte ufficiale di allora. Alla morte dell’artista (1958), già vedovo da qualche anno, le figlie, devote solo al padre, abiteranno insieme la casa per decenni, dedicandosi alla pittura e alle arti decorative, mantenendo lo spazio abitativo intatto e tutelando il lascito paterno. Scomparse Luce ed Elica agli inizi degli anni ’90, la casa, tra fortune alterne, ha beneficiato recentemente dell’interesse da parte del Maaxi e della Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, che, dopo un’attenta ricostruzione filologica, hanno curato la messa in sicurezza e il riallestimento della casa per la fruizione del pubblico. L’anonimo ingresso dello stabile e i quattro piani da fare a piedi (perché l’ascensore del palazzo è riservato ai condomini e ai visitatori con difficoltà motorie) sono solo un’inaspettata anteprima che anticipa lo spettacolo.
Casa Balla – Via Oslavia, 39/b – Roma – https://casaballa.maxxi.art
Nel borgo tra le opere di Fioravanti
Ilario Fioravanti (Cesena 1922 – Savignano sul Rubicone 2012) fu per tanto tempo un architetto e un artista per tutta la vita. Era nato a Cesena e, fin da bambino, aveva svelato il suo talento attraverso il disegno e la manipolazione della creta, che diventerà nel tempo la sua materia prediletta e lo consacrerà, innanzitutto, come scultore. Personalità di spicco nel panorama artistico cesenate, nel 1949 la laurea in Architettura lo porta a svolgere per alcuni anni l’attività di progettista di edifici ed aree urbane, professione che alternerà a quella di docente. Il richiamo dell’arte, però, è forte e Fioravanti continua la sua ricerca, dedicandosi forsennatamente alla scultura, alla pittura, all’incisione e al disegno, che non aveva mai abbandonato durante gli anni che l’avevano impegnato come architetto. Nel 1960 acquista a Sorrivoli, un antico borgo malatestiano sulle colline cesenati, un terreno su cui sorge l’antico frantoio attinente alla vicina rocca. E’ un piccolo edificio in pietra con affaccio sulle colline, che Fioravanti ristruttura con perizia e rispetto del contesto e delle mura antiche (alcune pietre si datano al 1294). Viene battezzata come “Casa dell’Upupa” per la presenza di alcune upupe che regolarmente vi nidificano e diventa la casa-atelier dell’artista per i successivi cinquant’anni, molti dei quali trascorsi con la moglie Adele, che conoscerà avanti negli anni. E’ proprio lei, la signora Adele, che ci accoglie sulla porta d’ingresso, con la nipote Diletta. Insieme si occupano di gestire l’ingente patrimonio lasciato dall’artista, dopo la sua scomparsa nel 2012. La sensazione che si prova una volta entrati è di grande sorpresa. L’interno è un intrico di stanze sparpagliate su vari livelli e, in ognuna, si è accolti da un esercito silenzioso di sculture in terracotta, di ogni foggia e dimensione. Le pareti sono ricoperte da pitture e disegni, ma la mano di Fioravanti si trova ovunque, nei lampadari che adornano i soffitti o nelle piastrelle che decorano la cucina. Nella stanza più grande della casa, che dà su il terrazzo e il giardino, un grande tavolo da lavoro accoglie ancora oggi gli attrezzi di lavoro, guardati a vista da una quantità di personaggi di creta, disposti in fila sulle mensole o appoggiati a gruppi sul pavimento. Le sculture spaziano dal sacro al profano. Ci sono presepi e prostitute, circensi ed emarginati, amanti abbracciati e volti che ti guardano fissi. Non mancano gli animali, veri o fantastici, che fanno sembrare infinito il bestiario dell’artista. Alle finestre si scorge un commovente panorama delle colline, che da queste parti non hanno nulla da invidiare a quelle blasonate della Toscana. La Casa dell’Upupa fa parte dell’Associazione Nazionale Case della Memoria ed è aperta al pubblico durante alcune giornate al mese. Se volete vivere un’esperienza magica, visitate questo luogo.
Casa dell’Upupa – Studio di Ilario Fioravanti – Piazza Roverella, 13 – Sorrivoli di Roncofreddo (FC) https://www.casedellamemoria.it/it/le-case-associate/ilario-fioravanti
Nella filanda tra le tele di Fiume
Definire in breve l’opera di Salvatore Fiume (Comiso 1915 – Milano 1997) è decisamente complesso ed è così ogni volta in cui si pensa di raccontare quel genere di artista che per tutta la vita ha saltellato qua e là, tra un’infinità di talenti. Come se fosse facile. Partì sedicenne da Comiso, grazie a una borsa di studio, per studiare al Regio Istituto per l’illustrazione del Libro ad Urbino, dove acquisì le tecniche di stampa. Terminati gli studi nel 1936, si stabilì a Milano, dove si mise subito in contatto con un raffinato ambiente di intellettuali. Conobbe, tra gli altri, Dino Buzzati (che divenne suo grande amico) e Salvatore Quasimodo. A soli 23 anni si trasferì a Ivrea per lavorare alla Olivetti, dove ricoprì la carica di art director di una rivista culturale. La letteratura era nelle sue corde e nel 1943 pubblicò con successo Viva Gioconda!, un romanzo autobiografico. L’arte, però, chiamava a gran voce e nel 1946 lasciò l’Olivetti per dedicarsi alla pittura. Si stabilì a Canzo, nel comasco, dove successivamente acquisto un’ex filanda ottocentesca, che divenne la sua casa-atelier. Un ex luogo di lavoro ideale per realizzare le sue opere di grandi dimensioni, come la gigantesca tela (incaricato da Giò Ponti) che Fiume dipinse per il salone di prima classe del transatlantico Andrea Doria, purtroppo affondato nel 1956. Intanto, nel frattempo, la carriera artistica di Fiume aveva preso il volo e nel tempo svolse con successo anche l’attività di scenografo e architetto. I grandi spazi delle filanda permisero all’artista di installare un laboratorio per la produzione di opere ceramiche, litografie e serigrafie. Visitare oggi questo luogo regala il grande privilegio di farsi accompagnare dalla figlia di Fiume, Laura, anch’essa apprezzata artista (www.laurafiume.it), la quale nella filanda ha condiviso con lui un lungo periodo di formazione e sperimentazione artistica ed è stata testimone di numerosi eventi legati alla vita di Salvatore. Laura, che cura l’eredità del padre con il fratello Luciano, è la guida perfetta in questo luogo denso di esperienze, perché non si risparmia nel racconto di aneddoti, anche divertenti e curiosi. Dopo la scomparsa di Fiume nel 1997, la filanda è rimasta un luogo vivo, dove Laura Fiume lavora e dove opera la Fondazione. Oggi le opere di Salvatore Fiume sono conservate nei maggiori musei del mondo, ma bisogna andare a Canzo per vedere dove e come tutto è nato.
La Filanda di Salvatore Fiume – Via Alessandro Verza, 68 – Canzo (CO) – www.fiume.org